domenica 13 aprile 2014
giovedì 6 marzo 2014
Grande Bellezza
Un
metafilm è una cosa difficile da comprendere, non è alla portata di
tutti, soprattutto di quelli che sbagliano l'approccio, per questo il film non è
piaciuto ai palati troppo raffinati e a quelli che si aspettavano un
"cinepanettone di classe" sulla Città Eterna: non deve piacere, deve
irritare, è un'operazione strana.
Devo ammettere che anche io ho faticato a mettermi sul binario giusto della fruizione, poiché ero stato portato troppo fuoristrada dalle critiche preventive e da quelle dettate da altre motivazioni pretestuose (co-produzione, distribuzione, simpatie politiche, invidie, etc.) che con lo svolgere del film c'entrano come il colore della pentola nella riuscita della bollitura della pasta.
Sorrentino e Servillo si sono presi gioco della giuria che ha abboccato all'esca del capolavoro e li ha premiati, essi sono come Giotto che si burla di Cimabue.
Così come hanno abboccato alla provocazione tutti quelli che criticano dall'alto di cattedre critiche in "cinematografia in un weekend".
Anche Fellini, per sua stessa ammissione, faceva la stessa cosa: prendeva per culo tutti, ma poi tutti ruffiani a scappellarsi davanti al grande maestro, immagino quante risate si sia fatte alle spalle dei presunti critici cinematografici, le stesse che divertono oggi Servillo e Sorrentino.
Lo stesso Nanni Moretti - che detesto, ma al quale riconosco picchi di genialità assoluta - ha avuto spunti del genere, ma senza mai arrivare a toccare l'onirico tipico di David Lynch (Twin Peaks, Mulholland drive) e dei suoi nani inquietanti.
Sorrentino ci prova e ci riesce, come fanno i truffatori, onore al merito, non ha mai detto che volesse giocare pulito, d'altronde a brigante, brigante e mezzo…
In tutto questo si è approfittato per sbeffeggiare gli insopportabili radical chic, i bacchettoni, gli ecclesiastici viveur, le puttane tristi e serie, le baldracche felici, i nani, le nane e le ballerine, i giornalisti, i politici, i partiti, gli arrivati, i mai partiti, i falliti bravi e i cialtroni realizzati, tutto sullo sfondo di una Roma che fa soltanto da meravigliosa cornice, ma sbiadita come in un sogno che diventa incubo.
Insomma, è stato coinvolto tutto l'arco costituzionale, parlamentare, religioso, coatto, nob, snob e chi più ne ha, più ne metta.
Perfino la Ferilli diventa brava interpretando se stessa, come tutti gli altri, d'altronde.
Si chiama Ramona (Romana), è malata, ma non si sa di che cosa e muore non per far piangere come in qualsiasi altro film, ma perché rappresenta l'ancora di salvezza del Faust-Gambardella con-dannato a soffrire nella ricerca di una bellezza che non troverà mai più: ha 65 e non ha più voglia di perdere tempo a fare ciò che non vuole, neanche scoparsi una bella donna.
Nella conclusione, infatti, verrà snobbato anche dal cardinale cialtrone, non a caso esorcista da strapazzo ed esperto di coniglio alla ligure con olive taggiasche (esiste anche quello alla cardinale).
Avevamo detto Proust, avevamo detto Céline, ora diciamo anche Goethe, ma sempre nel massimo rispetto e nei dovuti rapporti, dovesse incazzarsi (giustamente) qualche purista amante dei classici.
Verdone è quel che avrebbe voluto essere Carlo, si chiama Romano, ma non lo è fino in fondo, Venditti è il solito Venditti, non potrebbe essere altrimenti, la "santa vivente" è un gentile mostro morente grottesco che dorme in terra e mangia radici, quelle alle quali dovremmo tornare per comprendere da dove veniamo, chi siamo e dove, forse, potremmo andare.
Se continuiamo così, sicuramente affanculo tutti quanti.
Devo ammettere che anche io ho faticato a mettermi sul binario giusto della fruizione, poiché ero stato portato troppo fuoristrada dalle critiche preventive e da quelle dettate da altre motivazioni pretestuose (co-produzione, distribuzione, simpatie politiche, invidie, etc.) che con lo svolgere del film c'entrano come il colore della pentola nella riuscita della bollitura della pasta.
Sorrentino e Servillo si sono presi gioco della giuria che ha abboccato all'esca del capolavoro e li ha premiati, essi sono come Giotto che si burla di Cimabue.
Così come hanno abboccato alla provocazione tutti quelli che criticano dall'alto di cattedre critiche in "cinematografia in un weekend".
Anche Fellini, per sua stessa ammissione, faceva la stessa cosa: prendeva per culo tutti, ma poi tutti ruffiani a scappellarsi davanti al grande maestro, immagino quante risate si sia fatte alle spalle dei presunti critici cinematografici, le stesse che divertono oggi Servillo e Sorrentino.
Lo stesso Nanni Moretti - che detesto, ma al quale riconosco picchi di genialità assoluta - ha avuto spunti del genere, ma senza mai arrivare a toccare l'onirico tipico di David Lynch (Twin Peaks, Mulholland drive) e dei suoi nani inquietanti.
Sorrentino ci prova e ci riesce, come fanno i truffatori, onore al merito, non ha mai detto che volesse giocare pulito, d'altronde a brigante, brigante e mezzo…
In tutto questo si è approfittato per sbeffeggiare gli insopportabili radical chic, i bacchettoni, gli ecclesiastici viveur, le puttane tristi e serie, le baldracche felici, i nani, le nane e le ballerine, i giornalisti, i politici, i partiti, gli arrivati, i mai partiti, i falliti bravi e i cialtroni realizzati, tutto sullo sfondo di una Roma che fa soltanto da meravigliosa cornice, ma sbiadita come in un sogno che diventa incubo.
Insomma, è stato coinvolto tutto l'arco costituzionale, parlamentare, religioso, coatto, nob, snob e chi più ne ha, più ne metta.
Perfino la Ferilli diventa brava interpretando se stessa, come tutti gli altri, d'altronde.
Si chiama Ramona (Romana), è malata, ma non si sa di che cosa e muore non per far piangere come in qualsiasi altro film, ma perché rappresenta l'ancora di salvezza del Faust-Gambardella con-dannato a soffrire nella ricerca di una bellezza che non troverà mai più: ha 65 e non ha più voglia di perdere tempo a fare ciò che non vuole, neanche scoparsi una bella donna.
Nella conclusione, infatti, verrà snobbato anche dal cardinale cialtrone, non a caso esorcista da strapazzo ed esperto di coniglio alla ligure con olive taggiasche (esiste anche quello alla cardinale).
Avevamo detto Proust, avevamo detto Céline, ora diciamo anche Goethe, ma sempre nel massimo rispetto e nei dovuti rapporti, dovesse incazzarsi (giustamente) qualche purista amante dei classici.
Verdone è quel che avrebbe voluto essere Carlo, si chiama Romano, ma non lo è fino in fondo, Venditti è il solito Venditti, non potrebbe essere altrimenti, la "santa vivente" è un gentile mostro morente grottesco che dorme in terra e mangia radici, quelle alle quali dovremmo tornare per comprendere da dove veniamo, chi siamo e dove, forse, potremmo andare.
Se continuiamo così, sicuramente affanculo tutti quanti.
lunedì 3 marzo 2014
Grande bellezza
Siamo contenti, siamo italiani, "semo romani trasteverini, semo signori senza quatrini".
Il fatto che abbia vinto un Oscar un "brutto" film, cioè un film che ritrae fedelmente una realtà oggettivamente decadente, anche se non soddisfa i palati più esigenti (quelli del "Fellini è un'altra cosa"), è un gran bel risultato.
Non che si dia troppa importanza a questa statuetta simbolo, non dimentichiamo che la giuria degli Oscar è strana (premiò lo stucchevole "La vita è bella") e che viviamo il periodo nel quale Obama incassa un Nobel per la pace mentre bombarda mezzo medioriente...
Tuttavia lo stracafonal - per citare Dagospia - vince. È un dato di fatto.
E allora perché inveire contro una rilettura (l'ennesima, d'accordo) di Proust o di Céline, se questa serve a comprendere una "realtà omega", come fu utile la stele di Rosetta per decodificare "messaggi alfa" altrimenti incomprensibili?
Perché è vero che "Fellini è un'altra cosa", ma siamo proprio sicuri che la "Grande bellezza" non sarebbe piaciuta anche al grande Federico?
Il fatto che abbia vinto un Oscar un "brutto" film, cioè un film che ritrae fedelmente una realtà oggettivamente decadente, anche se non soddisfa i palati più esigenti (quelli del "Fellini è un'altra cosa"), è un gran bel risultato.
Non che si dia troppa importanza a questa statuetta simbolo, non dimentichiamo che la giuria degli Oscar è strana (premiò lo stucchevole "La vita è bella") e che viviamo il periodo nel quale Obama incassa un Nobel per la pace mentre bombarda mezzo medioriente...
Tuttavia lo stracafonal - per citare Dagospia - vince. È un dato di fatto.
E allora perché inveire contro una rilettura (l'ennesima, d'accordo) di Proust o di Céline, se questa serve a comprendere una "realtà omega", come fu utile la stele di Rosetta per decodificare "messaggi alfa" altrimenti incomprensibili?
Perché è vero che "Fellini è un'altra cosa", ma siamo proprio sicuri che la "Grande bellezza" non sarebbe piaciuta anche al grande Federico?
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