lunedì 10 dicembre 2018

Ridisegnare (male) l'Europa


Mesi fa, in tempi non sospetti, ripresi il tema della rivolta nelle banlieue del 2005.
Il problema, allora, sembrava essere circoscritto alle periferie, agli emarginati, agli immigrati.
All'Eliseo c'era Sarkozy, uno più preoccupato dell'accordatura della "chitarra" della moglie e del suo piffero d'accompagnamento che dei problemi da risolvere.
La tolleranza zero fu il rimedio, tipico di chi non vuole noie nel suo tempo e nel suo tempio.
Hollande e Macron sono stati poi, rispettivamente, il cuscinetto e la purga sotto mentite spoglie.
I francesi – che per "tigna" superano inglesi e tedeschi – sono stati a guardare fino a un certo punto.
Poi hanno detto basta.
Non credo nei movimenti di popolo.
Nei loro convincimenti, però, crede la democrazia.
La polizia europea arriverà alle urne?
Mi preoccupo per la Francia?
Neanche un po' se non in funzione del fatto che un'alleanza con i grillini-gilettini d'oltralpe significherebbe un ridisegnare un già disgraziato assetto europeo, ponendo la Germania nell'antipatica posizione già vista due volte nel secolo scorso.
Tra Brexit, individuazione folle del nemico, perdita di vista degli obiettivi primari di una unione mai realizzata, pesanti influenze da nordest, medio ed estremo oriente e sudest (Suez), la soluzione non potrà che essere di tipo militare.
Salvini e Di Maio, a quel punto, saranno l'ultimo dei nostri problemi.

domenica 18 novembre 2018

2008-2018: 5 Stelle e 10 anni


Anche se il titolo non va così indietro nel tempo, bisogna tornare al 1981 e al 1984 per comprendere meglio.
“Te la do io l’America” e “Te lo do io il Brasile” erano spettacoli (tragi)comici basati sul confronto delle miserie mondialiste viste con l’occhio di un “provincialotto” che – prima ancora di conoscere completamente Roma (per la politica politicante) e Milano (per quella affaristica, che male non gli stava) – negli anni ‘80 aveva già varcato l’Atlantico.
---
L’incidente con i socialisti nel 1986 non fu voluto – come si afferma oggi, per conferirgli dignità politica – ma “occasionato” (scusate l’orribile termine, ma funziona nello specifico), ovvero generato da un miscuglio di tracotanza, ingenuità, sottovalutazione, presunzione, etc.
Nulla di politico, insomma: una satira che venne mal presentata, mal disposta e peggio accolta, ma poi resuscitata da Tangentopoli.
“Ma allora Grillo aveva ragione”, ruminava la gente sull’autobus, estasiata da Di Pietro e confusa su Berlusconi e Bossi, ma vogliosa di qualcosa di buono da "Ambrogio", come la signora miliardaria in Rolls Royce in una nota pubblicità di quegli anni edonistici.
---
Infatti – la storia insegna – ostacolare un genovese non è consigliabile: una Niña, una Pinta e una Santa Maria sono sempre pronte a salpare, sia per attraversare l’Atlantico senza conoscere l’approdo, sia per puntare al Transatlantico, conoscendolo benissimo, anche grazie agli agganci di Gianroberto Casaleggio.
---
Se c’è stato qualcuno che ha votato per Berlusconi perchè tifava Milan, lavorava in Fininvest o in Mediaset, oppure perchè pensava che le leggi ad personam avrebbero finito per favorire anche se stesso, o Bossi perché semplicemente “settentrionale”, figuriamoci quale poteva essere l’estensione del bacino di consenso di uno come Grillo, che promette indistintamente – a poveracci autentici e a milioni di fancazzisti – lo stesso Bengodi.
---
Gli anni fondamentali per l’affermazione definitiva del Movimento 5 Stelle sono stati il 2012 e il 2013, prima con le espulsioni chiarificatrici preventive di chi non ubbidiva ai dictat (Tavolazzi, Favia e Salsi i cacciati più noti), e poi qualche malumore (con Pizzarotti a Parma) e qualche altro bisticcio tra gli eletti.
La “struttura-movimento-anti-partiti” era già diventata partito, con un leader che c’era e non c’era, ma che non prometteva di smacchiare giaguari, prometteva soldi veri, soprattutto agli eletti, pagati da quello Stato che si prefiggevano di voler combattere.
A tutti gli altri la promessa del reddito di cittadinanza, poco importa se fosse o sia realizzabile, come propaganda elettorale funziona benissimo.
E ciò basta, anche se diventerà un problema dopo: la morte di Casaleggio per 5 Stelle è un po’ come quella di Steve Jobs per la Apple, quando manca chi pensa, si possono fare guai.
---
Il V-Day2 non fu altro, quindi, che l’apoteosi di un “Te la do io l’Italia”, ma un conto è parlare di un Paese dove vai per fare il turista per caso e vieni visto da chi ancora se la passa bene; altro conto è parlare di quello in cui vivi a persone che ci vivono e che hanno qualche problema economico: il rischio di essere preso sul serio è altissimo.

giovedì 8 novembre 2018

Partecipazione

L'azzurro ha qualcosa in comune con il verde,
che ha qualcosa in comune con il giallo,
che ha qualcosa in comune con il rosso e non con l'azzurro,
che non ha niente in comune con l'azzurro e con il verde.

Che cosa contraddistingue un’iniziativa di successo?
Il coinvolgimento, ovviamente, visto che il consenso politico, economico o di semplice gradimento (gratuito o a pagamento che sia) è dato dalla partecipazione, che – secondo Giorgio Gaber – era addirittura sinonimo di libertà.
Ma era la partecipazione a sfociare nella libertà o viceversa?
Cioè, chi è libero (o si sente tale) è anche partecipativo?
Oppure, chi è partecipativo per indole, si sente fondamentalmente un uomo libero, poiché non ha paura di condividere genuinamente le proprie idee e le proprie risorse?
Magari lo fa senza il timore che gli vengano scippate, semplicemente perché crede fermamente che una bicicletta sia più utile in strada – a disposizione di tutti, civilmente – anziché diventare un cumulo di ruggine e marcire incatenata in un giardino privato.
Ovvero, è consapevole, fuor di metafora, che diffondere ricchezza di pensiero arricchisca ulteriormente anche se stesso, di riflesso, oltre che i suoi simili.
Sono dunque la consapevolezza e la gioia del dono, che possono restituire immortalità*, oltre il bene materiale terreno che diventa bene assoluto?
Può darsi.
*D'altronde sono numerose le personalità passate alla storia come benefattori: il loro insegnamento va oltre la loro morte, anzi, spesso la loro scomparsa – di più se tragica – ha consolidato il loro pensiero e la loro azione, anche oltre le aspettative degli stessi protagonisti, poiché essi agivano non per essere ringraziati o ripagati da altri, ma perché li appagava il solo pensiero che qualcuno potesse ringraziarli per quel che avevano detto e fatto.

Giorgio Gaber al "Cantagiro" nel 1969
Ma, allora, perché non accade più spesso?
Perché la gratitudine non è di questo mondo?
Perché non ci aspettiamo nulla dagli altri?
Questione spinosa, visto che non siamo più nell’ambito “del come è”, ma in quello “del come dovrebbe essere”.
O “del come vorremmo che fosse”, che rinvia – come già detto altrove – ad una visione singolare e soggettiva che è l’esatto contrario della partecipazione collettiva, almeno di quella intelligente, quella che ci interessa, non quella da tifosi o da "sindrome del gregge".
Pertanto, a mio giudizio, Gaber era un pessimo ottimista, probabilmente un disilluso utopista.
Vediamone gli sviluppi.

Dal palcoscenico all’impegno politico, al palco del comizio…

Grillo come Gaber, quindi? Assolutamente no.
Innanzitutto perché Grillo si è spinto (male) oltre Gaber.
Egli non si è fermato al supporto ipotetico* ad una forza politica preesistente, ma ne ha fondata una: il Movimento 5 Stelle, criticando le altre.
E questo è già un discrimine notevole, poiché Gaber era fondamentalmente soltanto Gaber, quindi se stesso, quindi uno, ma anche nessuno e centomila, scomodando Pirandello.
Non era Vitangelo Moscarda, certo, ma comunque – come il protagonista dello scritto – era uno che si svelò a se stesso e agli altri, in divenire. E migliorandosi.

* Supporto tra l’altro presunto, quello di Gaber a forze politiche, che vive più nell’immaginario emozionale “emicollettivo” delle appropriazioni indebite delle quali il pensiero del Signor G. è stato (ed è tuttora) protagonista.

In Grillo, invece – ottimo pessimista – il percorso è inverso: è uno che è diventato "milioni" (o viceversa), non soltanto centomila, non svelandosi in divenire, ma ammantandosi, velandosi, cambiando pelle e mettendo le squame da serpente.
Una muta che gli ha consentito di riprendersi la rivincita sui socialisti, già “sventrati” da Tangentopoli e da Di Pietro, ma di più su quella classe politica che essi rappresentavano e lo avevano osteggiato.
Un Berlusconi allo specchio, potremmo azzardare, uguale e contrario: entrambi sono usciti bene da Mani pulite, anzi, ne hanno giovato.
Un’azione, quindi – quella di Grillo – generata da assoluta motivazione personale, nulla di collettivo*.
Né più, né meno della "scesa in campo" di Silvio.
Altro che uno vale uno; vale soltanto uno e gli altri semmai valgono in funzione di quell’uno, altrimenti non sarebbero “grillini”, “berlusconiani”, etc.
Uno che interpreta milioni o milioni che diventano uno?
Democrazia? Sembrerebbe dittatura, a prima vista, seppur autorizzata.
Ma da chi?

*Qui torna prepotente la differenza tra unione e Unità, questione (o cortocircuito) che riguarda maggiormente la sinistra, quella popolare a parole, ma ovviamente elitaria nell’esercizio del potere, sia esso stato quello berlingueriano – se vogliamo subdolo, ma con volontà di uscire da sotto l’ascella sinistra della DC – oppure quello Renziano, post Bersaniano, che era più confuso e imbarazzato negli intenti sommari per non deludere i veterocomunisti.
PS - Renzi anela ancora a quella volontà di potenza più consona ed abitudinaria alla e della destra post-fascista, in lui fa sorridere, in Salvini spaventa. Giampaolo Pansa ha ben distinto: Renzi è un bullo, Salvini ha modi fascisti, il che non significa che sia fascista.

Però la partecipazione e il consenso al Movimento sono stati elevati – enormi, si dirà – ma sono stati anche sinonimo di libertà?
Di democrazia?
O è soltanto sindrome del gregge? O del pifferaio magico? O tragico?
La gente è sempre quella pronta a tirare monetine in pubblico e a prendere mazzette in camera caritatis? O a dare oro alla Patria?
Probabilmente, ma la risposta più equilibrata è come sempre quella che si attiene ai fatti.
Il Movimento 5 Stelle non rappresenta alcun cambiamento, poiché divide, non unisce, se non parzialmente: nulla di nuovo, si tratta comunque di partitocrazia.
L’unica cosa nuova* è il né di qua né di là, ma neanche al centro, visto come covo di potere, come male assoluto, ancor più del fascismo visto da Gianfranco Fini.
Quindi il nuovo che avanza non è nulla di quanto già visto: è, appunto, nulla.
E sul nulla ha costruito il proprio successo: probabilmente ha riavvicinato persone deluse alle urne (e sarebbe un bene), ma con proposte demagogiche di facile presa ed ha anche illuso – con i meetup – altri "bolliti" nei loro partiti di provenienza, puntualmete poi silurati o migrati spontaneamente al gruppo misto.

*Relativamente nuova, già la destra ci aveva provato, ma con scarso successo, con il “né destra, né sinistra”, che però proponeva qualcosa di impegnativo e decisivo; a parole funzionò, nei fatti, no.

E Salvini? Egli è il frutto del "combinato disposto", per usare una terminologia abusata in campo giornalistico e politico.
Tuttavia sarebbe più appropriato parlare di combinato "indisposto": 
- della Lega, per anni litigiosa sul leader; 
- del centrodestra moderato, forse troppo, sicuramente spronato e frenato al tempo stesso da Berlusconi; 
- del popolo votante redivivo che deve aver pensato: sì, Movimento 5 Stelle va bene, ma forse è meglio che i ragazzi siano accompagnati dagli adulti. Lasciamolo provare non è forse tipica frase del genitore che vede il proprio figlio muovere i primi passi?

Tutto sbagliato? Ce n’era bisogno?
Forse no, forse sì: non tutti i mali vengono per nuocere.
È infatti assodato che oggi ci sia maggior consapevolezza – sia da parte dei vertici che della base – del fatto che qualcosa possa e potrebbe cambiare.
Ma in meglio, però, per un esito “probabile”, non a favore di chi propone di andare a vivere su Marte, come fascisti, come grillini o come leghisti, poiché la Terra sarebbe stata inquinata dai comunisti, dai democristiani e dai berlusconiani.
Insomma, la partecipazione è importante, ma con un occhio a chi "partecipa": le feste ben riuscite sono quelle con la selezione all'entrata.
Poco democratico? 
Ce ne faremo una ragione, non lo è neanche così.
Gaber ci perdonerà: tra tante "giornate della memoria" non vorremmo che fosse istituita pure quella per ricordare l'Italia pre-tangentopoli che "funzionava" un po' di più.

lunedì 29 ottobre 2018

Report corregge il tiro sull’editoria

Il Movimento della sega
e il pianto del coccodrillo


L'immagine si ferma al 2016, le cose stanno peggiorando.

Report, il noto e ventennale programma del palinsesto RAI – sì, quella del canone – smorza i toni e dismette i panni inquisitori per tornare a quelli più consoni (vedremo stasera, però), da inchiesta giornalistica, dopo che Milena Gabanelli è passata dall’essere proposta come papabile Presidente della Repubblica a defenestrata.


Già dal titolo della puntata sul “contributo” all’editoria, “Un equo finanziamento”, che andrà in onda oggi, alle 21,15, su RAITRE, traspare – se non una vera e propria inversione di tendenza – quantomeno una brusca sterzata con frenata.
Cautela probabilmente dettata dal fatto che si sono accorti di aver dato la stura al “Movimento della sega”, quello che prima o poi taglierebbe anche il ramo dell’albero sul quale sono seduti anche i giornalisti in ambito RAI, anche se il "terzo canale" è ancora saldamente in mano alla sinistra, infatti impostano la trasmissione mischiando le carte contro l'odiato "padrone" che sfrutta i poveri giornalisti. Vero fino ad un certo punto, e più spesso in giornali che il contributo non lo percepiscono, come vedremo.

La puntata è il seguito di quella che diede fuoco alle polveri nel 2006, infoiando poi grilli furbi, grillini invidiosi e grilletti facili, ed è sempre a cura di Bernardo Iovene (allora freelance, chissà se l’hanno contrattualizzato), ma che si intitolava “II finanziamento quotidiano” (https://www.raiplay.it/video/2009/01/Report---Il-finanziamento-quotidiano-9ddb997e-e18b-43d2-aab9-4f3d03bf6eea.html), un modo subdolo per dire: “ah, ci costi, quanto ci costi!?”.*

*A mio giudizio, nella puntata del 2006 ci furono una serie di imprecisioni e un modo di condurre l'inchiesta discutibile, giungendo a conclusioni su basi di ragionamento eccepibili, come ad esempio chiedere ad edicolanti a campione se conoscessero Linea Quotidiano, anziché mostrare i tabulati ufficiali delle distribuzioni nazionali per verificare le piazze e le edicole servite in queste, soltanto per citare una balla macroscopica.
A mie richieste di contraddittorio, non ebbi alcuna risposta.

Ma leggiamo da 
http://www.report.rai.it/dl/Report/puntata/ContentItem-59dfb7b7-bfed-4307-83b5-0d77b5d10e9d.html

«I finanziamenti diretti ai giornali vanno a cooperative di giornalisti, come il Manifesto, e a società controllate da cooperative, come Italia Oggi.
Sono finanziate anche fondazioni come quella che fa capo alla Cei, nel caso di Avvenire, e come la San Raffaele degli Angelucci per Libero.
[1]


I giornali che ricevono un contributo diretto sono 54, costano allo stato 60 milioni di euro, ma l’80 per cento dei finanziamenti viene diviso tra 20 quotidiani.
[2]


Il nuovo governo ha annunciato il taglio di tutti contributi, anche di quelli indiretti, complessivamente parliamo di 180 milioni di euro. [3]


Il sottosegretario Vito Crimi spiega alle nostre telecamere come e quando avverrà.
Dall’altra parte ci sono gli editori rappresentati dalla Fieg, che invece chiedono un intervento per far fronte alla crisi.
[4]


In un’intervista esclusiva a Report Urbano Cairo dichiara invece di non chiedere aiuti pubblici. [5]


Nel panorama dei quotidiani reggono molto bene quelli locali, che vivono ancora grazie ai propri lettori.
[6]


Come, per esempio, la Libertà di Piacenza, la Gazzetta di Parma, ma anche il Gazzettino, il Mattino di Padova e la Tribuna di Treviso e le cronache locali di Repubblica e Corriere della Sera, dove però lavorano centinaia di giornalisti collaboratori a 2, 4, 6, 9 euro ad articolo, ne scrivono anche 5 al giorno con uno stipendio che non arriva a 1000 euro, anche dopo decenni di collaborazione continuativa.» [7]

Ed ora analizziamo punto-punto

1] Le cooperative e le fondazioni
In Italia ci sono coop. di ogni genere, da quelle necessarie e che possono permettersi di sopravvivere soltanto grazie a sgravi fiscali consentiti dallo statuto interno che obbliga anche a rigidi parametri (su tutti non profit e impossibilità di redistribuzione degli utili tra i soci) a quelle che non sono facilmente individuabili per tipo e settore di operatività.
Le fondazioni sono un po' più "blindate", tuttavia il caso che riguarda i giornali rientra nel primo genere, pertanto nessun problema a verificarne i conti, cioè chi fa cosa e perché lo fa.

2] La percezione

Dai dati comunicati, il controllo non è impossibile: 34 giornali minori e 20 maggiori. 
Inoltre, se l’80% del contributo viene percepito dai più in vista, l’operazione di verifica è ancor più semplice.
Peraltro l'erogazione è stabilita dal dipartimento editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri sulla base dei documenti di idoneità presentati dalle cooperative aspiranti alla percezione del contributo, documenti di dominio pubblico.
Qual’è il punto, allora?
È che, né il controllo, né l’erogazione, né tantomeno l’abolizione del contributo, per decreto, dovrebbero essere di competenza governativa, ma, semmai, parlamentare a 360°.
Sempre se vogliamo ancora parlare di democrazia, la quale presuppone maggioranza ampia o di misura, ma sempre un’opposizione vigile, presente e battagliera.

3] Il risparmio effettivo
Il “costo allo Stato” – secondo Report – va dai 60 ai 180 milioni di euro su base annua. Benissimo. Da uno a tre euro pro capite/anno risparmiati con l’abolizione del contributo: l’anno prossimo tutti in settimana bianca a Cortina! 
Ma di che cosa stiamo parlando? Di spicci per il caffè al bar o di abolire la libertà di stampa e la pluralità di informazione?
A quando i gulag?
Senza contare che il main stream (quello che Grillo e i suoi dicono di voler combattere) del contributo alla piccola e media editoria se ne frega, anzi, se lo aboliscono, i giornaloni infarciti di pubblicità saranno ancora più liberi di fornire indisturbati la propria versione dei fatti, magari foraggiati da lobbies.
E pagherebbero sempre meno i propri giornalisti senza alternative di impiego.

4] La sega (non la Lega)

Chi ha la sega in mano è Vito Crimi, il Senatore del Movimento 5 Stelle nominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’editoria (dopo essere passato per il COPASIR).
Egli è determinato a portare a termine il suo progetto di sventramento dell’Ordine dei Giornalisti, in seno al quale è peraltro in corso una corposa, auspicabile e necessaria riforma.
La sua strategia sembra quella di togliere il supporto a giornali e giornalisti, affinché – abolendo il finanziamento – essi non abbiano più un organismo che li tuteli.
Ma, nel caso, non ci sarebbe soltanto L’OdG da abolire, questo Crimi lo ha dimenticato?
Oppure si tratta di una strategia che sarà attuata con tattiche diluite da pesci in barile?
Prima l’Ordine dei Giornalisti (ODG), poi la Federazione della Stampa (FNSI) e a seguire l’Associazione Stampa Romana (ASR), la Federazione Italiana Editori di Giornali (FIEG), l’Associazione Stampa Medica Italiana (ASMI), l’Unione stampa periodica italiana (USPI) e addirittura l’Associazione Nazionale della Stampa On Line (ANSO), visto che il blog di Grillo dovrà rimanere unica voce incontrastata?
Se non è pensiero unico questo…
Di più: si prospetta all'orizzonte un esercito di disoccupati “incarogniti” per i quali lo Stato dovrebbe farsi carico di una interminabile lista di casse integrazioni?
Dov'è il guadagno? Dov'è il risparmio? Questo sarebbe il vero costo sociale enorme per lo Stato.
L’unica cosa certa è che a perdere – oltre a migliaia di posti di lavoro – sarà la pluralità di informazione.
Un po’ come se si volessero abolire il Ministero degli Interni e quello della Difesa per poter togliere le armi alla Forze dell’Ordine e ai militari.
Tutto giusto?
A mio giudizio, no: il problema non è mai la pistola, ma l’uso che se ne fa.
Il tesserino da giornalista è oggettivamente paragonabile ad un’arma, ma di difesa pubblica, non di offesa.

5] La lima e la raspa
Urbano Cairo? Non li prende? Li ha presi in passato? Sì, no, ma che c'entra?

6] Pubblicità
I giornali che sopravvivono senza contributo ospitano corposi spazi pubblicitari, nessun giornale può sopravvivere con il solo prezzo di copertina: il “grazie ai lettori” nel testo di presentazione della puntata odierna di Report è una boutade scandalosa.
Ma, se non bastasse, come ho più volte sottolineato, la pubblicità sottrae spazio all’informazione e – cosa più grave – spesso la influenza negativamente: se pubblico l’inserzione di un'impresa, a pagamento, non potrò condurre un’inchiesta sulla regolarità del suo operare, con tanti saluti all’oggettività e al servizio pubblico.
La mia proposta, presentata oltre dieci anni fa, è quella di rendere gratuita la fruizione dei giornali che percepiscano il contributo e il divieto di avere spazi pubblicitari nei medesimi, esattamente come dovrebbe essere per la RAI: o il canone o la pubblicità, altrimenti, appunto, non si può parlare di servizio pubblico.
Chi non è d'accordo, è un furbetto: fa il giornale per incassare il contributo, non per informare.
Facile-facile, anche qui.

7] Il pianto del coccodrillo
A parte il fatto che se dovessi scrivere 5 articoli al giorno a 9 euro l’uno (non di meno, è già “schiavismo” così), intascherei 45 euro e non mi farebbero schifo: è sempre meglio che scavare con le mani in miniera. 
Ma sarebbe più corretto dire che è impossibile scrivere 5 pezzi di qualità al giorno: il primo sarà buono, il secondo mediocre e gli altri saranno un copia e incolla raffazzonato in fretta e furia: chi non è mai stato in una redazione non può comprendere a quali ritmi si lavori e con quale stress.
E poi, se dopo decenni di collaborazione, le retribuzioni non sono state adeguate neanche ai più bravi è perché soltanto nei casi citati (ovvero nei giornali che non percepiscono contributo) la gestione dei cordoni della borsa è in mano a privati danarosi che lucrano sulla pubblicità e della competenza giornalistica se ne fregano, con conseguente abbassamento di livello della qualità generale dell’informazione "ufficiale".
E pur vero che alcuni articoli non li pubblicherei neanche gratis, altro che 2, 4, 6, 9 euro, ma questo è un altro discorso.

Le associazioni di categoria e le federazioni preposte insorgano, quindi, e giustamente. Occorre fermare una guerra civile (soltanto nel senso di autolesionista, di "civile" c’è ben poco, per il resto), un tutti contro tutti, tra un fuggi-fuggi generale da e con barattoli di marmellata (oggettivamente?) rubati e sacrosanto diritto alla tutela della pluralità di informazione.

Concludiamo con un noto adagio: “Attento a quel che chiedi, potresti ottenerlo…”

domenica 28 ottobre 2018

Il più bullo del reame

Lo dico e lo scrivo da venti anni, anche se il video ne ha "soltanto" 4
https://www.youtube.com/watch?v=Zfj4hXHd40c
Tutto quello che era stato pianificato (e paventato da pochi lungimiranti sospettosi) si sta svolgendo esattamente come previsto.
Mi sembra di assistere ad una partita a biliardo dove uno dei giocatori pensa che non debba imbucare la palle proprie, ma quelle dell'avversario.
Purtroppo i social non aiutano mettendo in giro frasi tipo "governi non eletti" che portano drammaticamente fuoristrada, non hanno e non danno alcun appiglio legale o legislativo.
Scusate se ribatto sempre sul medesimo tasto, ma quel che manca sono giornali e giornalisti che facciano da filtro, da interprete, tra le parole quasi incomprensibili dei tecnici (in mala e buona fede, smascherando i primi e supportando i secondi) e le orecchie del popolo fu sovrano.
Non deve essere il tecnico ad esemplificare, ma qualcuno che con facili metafore faccia comprendere i complessi meccanismi.
Il primo passo verso il delirio e la confusione lo ha generato Grillo parlando di democrazia diretta e dei deputati come dipendenti, snaturandone la funzione e deresponsabilizzando la persona, paradossalmente.
Ma agli aspiranti grillini ciò parve cosa buona e giusta, facendo leva su invidia sociale giustizialista, più che su bisogno di giustizia.
Deputato – penso lo sappiate tutti – è un sinonimo di delegato, ovvero persona alla quale diamo carta bianca per partecipare alle sedute parlamentari: quando vota, lo fa per sé, per quelli che lo hanno eletto e anche per gli altri non rappresentati.
Nei governi tecnici non vi è nulla di illegale, sono previsti, ci sono sempre stati, questo non significa che sia corretto, ma è una forma di paracadute quando non si raggiungono i numeri di maggioranza previsti dalla costituzione repubblicana e – prima ancora – dall'ordinamento democratico che la disciplina nelle sue forme basilari.
Più la costituzione è complessa, lunga e arzigogolata, più è probabile che qualche furbetto ne faccia l'uso che più gli aggrada.
Berlusconi aveva ragione sulla riforma, anche se non condivido molte sue fantasie liber.
Se nel 2011 non avesse fatto un passo indietro, poiché non voleva assumersi la responsabilità di decisioni impopolari, ma necessarie (e anche perchè era sotto ricatto, nessun politico diventa tale se non è ricattabile, per inciso), probabilmente la sequela dei governi "non eletti" ce la saremmo risparmiata, ma tant'è.
Il governo attuale è formato da gente che non vedeva l'ora di governare, ma non ha la più pallida idea di come si ottengano i risultati auspicati.
Anche le istanze più corrette vengono portate in sede sciaguratamente, in politica la forma è anch'essa sostanza.
Questo è il più grande problema: se arriva un bullo più bullo dei bulli che ci vessano, non aspettiamoci soluzioni, ma ulteriori grane, specialmente se è alleato con una congrega di segaioli che si credono secchioni.

Editoria


Il contributo all'editoria serve per far acquistare un giornale – in edicola oppure online – che spesso non ha pubblicità o altre forme di guadagno, ad un prezzo sostenibile da tutti.
Questi giornali sono minori, fatte salve due o tre eccezioni più o meno discutibili (ma è la pluralità di informazione).
In questi spazi minori vengono pubblicati commenti ai fatti o fatti nudi e crudi, spesso relegati a cronache locali o anche di ambito nazionale, ma puntualmente ignorati o distorti dalla cosiddetta "grande informazione" (mainstream).
Quella che del contributo all'editoria SE NE FREGA, poiché sono Testate in mano a privati danarosi e/o a lobbies di riferimento che le foraggiano per far dire quel che vogliono, e che addirittura auspicano la soppressione del contributo alle Testate minori, poiché LORO rimarrebbero uniche voci incontrastate: verso il pensiero unico, QUINDI.
E ora facciamo due conti.
Se non ci fosse il contributo, un giornale minore non costerebbe un euro al giorno, ma 5: le redazioni piccole costano mille euro al giorno di media, le spese sono ingenti, hanno meno sgravi fiscali di quelle grandi e anche i loro giornalisti mangiano ogni tanto, oppure pensavate di no?).
Chi volesse essere informato sugli sviluppi delle questioni dovrebbe sostenere, quindi, un costo cinque volte superiore.
Chi vuole il giornale se lo paghi?
Come dice Grillo?
Un'enorme stupidaggine.
Innanzitutto perchè un giornale non è un'azienda privata (alcuni sì, ma – come detto – del contributo se ne fregano), ma un servizio pubblico; e poi perché sarebbero pochissimi quelli con la possibilità di spendere 5 euro al giorno e i piccoli giornali chiuderebbero comunque.
Ma quanto costa alla comunità tutto ciò?
Un caffè pro capite all'anno.
Ovvero spendereste 300 euro l'anno per acquistarlo di tasca vosta, ma soltanto un euro in più per non spenderne 1500, se volete informarvi.
Quindi 301 euro anziché 1500 per chi acquistava il giornale, moltiplicato per tutti i giornali che si volevano comprare.
C'è internet, dite?
Se avete le capacità di discernimento su quanto leggete e chi lo dice, va benissimo, altrimenti preparatevi alla "posizione per antonomasia".
--------------------
Ma per far sì che l'informazione fosse totalmente gratuita, anni fa proposi un'idea per la riforma della legge sul contributo all'editoria (che poi, in realtà, ad oggi, è un rimborso al 50% delle spese sostenute).
La proposta era così articolata.
- Distribuzione gratuita dei giornali che lo percepiscono, ovvero un servizio pubblico gratuito, ma da non confondere con il "Freepress" privato e zeppo di pubblicità dichiarata o più o meno subliminale (redazionali-marchetta).
- Togliere il dato di distribuzione come parametro per calcolare l'ammontare del rimborso, ma considerare le spese vive al 100%: stipendi, utenze, servizi, tiratura (carta e stampa) e distribuzione effettiva e verificata nei punti concordati.
Ciò avrebbe portato molteplici vantaggi.
- Le cooperative non avrebbero più dovuto "inventare" costi per gonfiare il bilancio, seppur verificato dai revisori dei conti, per far fronte alle spese (o ad altro, ma per quello c'è la GdF).
- Gratuità dell'informazione svincolata da gruppi di potere.
- Soltanto informazione e commenti, niente pubblicità ingombrante e condizionante.
- Maggior possibilità di controllo sui percettori.
- Immediata sospensione in caso di malversazione (le cooperative sono no profit, non ci sono dividendi per i soci lavoratori.)
- Facilità di individuazione dei malintenzionati: chi non è d'accordo, fa il giornale per fare cassa, non per informare.
---
Tutto ciò premesso, la malafede di Grillo emerge come il pericoloso iceberg che affonderà il transatlantico Italia: l'onestà deve convenire a tutti, non andare di moda per qualcuno.

Una rilettura di Sciascia
Uomini, mezz’uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà


Dopo il post sul pensiero e l’azione (volontà, talento, possibilità), dove in un passaggio citavo le categorie nel titolo di quello odierno, ho pensato di parlarne usando delle metafore che – a mio giudizio – si prestano a descriverle.
Ora, quindi, dopo aver esaminato le caratteristiche degli attori in scena – chi fa (o non fa) qualcosa tra comparse, personaggi, interpreti e protagonisti – passiamo ad analizzare le peculiarità intrinseche delle azioni, ovvero se esse abbiano accezione positiva o negativa in funzione di chi le auspica o le deplora è – soprattutto – perché esse debbano essere compiute o boicottate.

Supponiamo che un’operazione debba essere realizzata.
Essa può avere, appunto, un fine positivo (ad es.: salvare una vita umana) o negativo (ad es.: compiere un attentato terroristico).
A prescindere da quale sia la sua finalità, si dirà che – se portata a compimento – l’azione avrà avuto “buon esito”, svuotando il significato di “buono” dell’accezione positiva, tipica invece del buon (lieto) fine, inteso sia come scopo positivo prefissato, che "finalmente" ottenuto.

Pertanto, se medici, chirurghi, vigili del fuoco, forze dell’ordine in genere, siano riusciti nell’intento di salvare una vita in pericolo oppure se sicari esecutori, mandanti e criminali in genere abbiano conseguito l’obiettivo del loro fare, dal loro diverso e opposto punto di vista, parleranno comunque di “buon esito” in caso di realizzazione del risultato.

Per comprendere meglio scomodiamo una serie di operazioni algebriche dando per assunto definito – è pur sempre un’analisi cinica, ma non è questo il luogo di dimostrazioni matematiche dettagliate – che [(+) X (+)] = (+), [(-) X (-)] = (+) e [(+) X (-)] = (-).

Dove, però, distinguendo:
- il primo fattore moltiplicatore ha “VALORE RELATIVO” all’azione – positiva o negativa – da compiere;
- il secondo ha “VALORE RELATIVO” al successo o meno dell’operazione in questione (“buon esito”, ma non necessariamente lieto fine);
- il prodotto (risultato) ha “valore assoluto” positivo o negativo, ovvero se si è verificato o meno ciò che è giusto per convenzione benigna: “il bene che trionfa sul male”*.

*O almeno così dovrebbe essere, ma – come sappiamo – quasi mai lo è, visto che il bene comune assoluto è impossibile da conseguire: nella quasi totalità dei casi si ricava maggior profitto nel danneggiare gli altri che nel fornire loro aiuto.
Già non è semplice non fare al "prossimo", figuriamoci il fare.
Insomma, un favore si paga, un dispetto è gratis, magari soltanto per il gusto di affossare qualcun altro, anziché elevare se stessi: è meno impegnativo e fornisce l’illusione al consenso che caratterizza di solito il comportamento del politicante, il quale adotta il più semplice “lui è peggiore di me”, anziché il “io sono migliore di lui”.
Come già detto altrove, nel primo caso basterà boicottare l’operato dell’avversario per fare bella figura, nel secondo occorre “produrre” prove delle proprie capacità; se queste mancano, la prima opzione è anche l’unica disponibile e attuabile.
Per questo motivo si può affermare che con un avversario intelligente si discute, con un nemico malintenzionato si lotta, ma contro un cretino siamo indifesi: egli non è prevedibile poiché, anziché agire, reagisce a casaccio alle sollecitazioni.


Vediamo in pratica

1) [Si tenta di salvare una vita (+ relativo)] X [ci si riesce (+ relativo)] = VITA (+ assoluto).
2) [Si tenta di salvare una vita (+ relativo)] X [non ci si riesce (- relativo)] = MORTE (- assoluto).
3) [Si pianifica un attentato (- relativo)] X [non ci si riesce (- relativo)] = VITA (+ assoluto).
4) [Si pianifica un attentato (- relativo)] X [ci si riesce (+ relativo)] = MORTE (- assoluto).

Ai “fattori” possiamo sostituire ogni “necessità” (uscire dall'euro, ad esempio), azione pianificata e relativo risultato.

Le conseguenze del fare

Elaborazione grafica di un fotogramma da "Stati di allucinazione".

Innanzitutto, consideriamo che ognuno di noi, nello svolgere un compito, ha un COSTO, un VALORE e un PREZZO.
Un rating personale, potremmo azzardare.

Il COSTO oggettivo è relativo alla “professionalità” effettiva ed ha connotazione assoluta in casi confermati da preparazione, esperienza, etc. che stabiliranno il valore del "professionista" o "mestierante";
il VALORE, quindi, o si ha o non si ha (come il coraggio manzoniano), ma potrebbe essere ingiustamente attribuito con dati falsati e spacciati per autentici;
il PREZZO dipende dalla situazione economica in cui si trovano gli attori protagonisti e se ne stabilisce la rispettiva categoria sulla base di costo e valore.
Insomma: si mercanteggia, ma entro i limiti stabiliti, oltre i quali è opportuno non andare (in Borsa si parlerebbe di eccesso di ribasso o di rialzo), pena lo stallo delle trattative che non è utile ad alcuno (cui prodest?).

Analizziamo più approfonditamente

Se si è professionisti di “valore” riconosciuto, il prezzo sarà congruo alla prestazione (NB: nel mondo perfetto);
se si è “senza arte, né parte” e senza “valore” (oppure confinati arbitrariamente nell'ambito), invece, il prezzo sarà definito da parametri probabilmente non corretti e sarà caratterizzato da un’elevata entità della promessa fatta, ma da un compenso scarso, se non nullo*.

* Ribasso e rialzo.

In entrambi i casi, comunque, dipende dal “potere contrattuale” contrapposto, composto dalla domanda e dall’offerta.
Presupponendo (a ragione) che in città VALGA più un chilo d’oro e nel deserto VALGA più un litro d’acqua, i COSTI passano in second’ordine e quindi il PREZZO è stabilito su base di utilità (oro) o necessità di sopravvivenza (acqua).
In altre parole, in città (city) si mercanteggia e si tratta; nel deserto, no: lì è soltanto chi vende (offerta) a fare il prezzo, e chi compra (domanda, ma sarebbe più opportuno dire supplica) a dover scegliere se vivere o morire.


Conclusione


Le categorie inventate da Leonardo Sciascia – drammaticamente aderenti alla realtà ed ancora attualissime – popolano l'Italia e, purtroppo, si sono alternate al governo, anche in quello attuale.
Siamo passati da una gestione prona alla UE ad una ribellione scriteriata, mentre sarebbe stata ben più opportuna una strategia e una tattica più prudente, più intelligente e anche più furba: a brigante, brigante e mezzo.

Così come è stata impostata la politica economica europea, portare avanti politiche sovraniste senza saperle maneggiare con cura significa spostarsi dalla città al deserto, all’isolamento economico che potrebbe portarci a dover accettare condizioni capestro addirittura peggiori di quelle attuali.
Non dobbiamo subire tutti i dictat europei, insomma, ma neanche cercare di sottrarvisi con teorie strampalate e gesti inconsulti.

giovedì 25 ottobre 2018

I totalitarismi sono tutti uguali?
Sì e No

Matteo Salvini come Benito Mussolini.
La vignetta di Mannelli pubblicata sulla prima pagina del Fatto quotidiano.

Tra entusiasmi nazionalisti/sovranisti e incondizionata fiducia nell’Unione Europea prendiamo una prudente distanza da entrambe le visioni, ma cerchiamo di comprenderne i motivi che le animano.

Da una parte abbiamo la rappresentanza di governo e relativi sostenitori non proprio amalgamati: Salvini e la Lega rappresentano la vecchia politica, mentre Di Maio e i 5 Stelle sono il nuovo "nuovo che avanza", riciclando intuizioni pubblicitarie berlusconiane che vanno per i trenta anni.

Per evitare commistioni con il “vecchio che è avanzato” è stato coniato lo slogan “Governo del cambiamento”.

Questo “cambia Mento” entusiasma i grillini ed è accettato dalla Lega per gioco di ruolo, ma al tempo stesso evoca un altro mento, quello del mascellone italico fascista.

Infatti, sia Salvini che Di Maio, ma su posizioni differenti, usano – più o meno bene – l’intransigente adagio, ma non troppo del “chi non è con me, è contro di me” cui seguono ineluttabilmente “Nel fuoco mi tempro” e lo sconsiderato – a mio giudizio – “Molti nemici, molto onore”.

Dall’altra, in questo, quindi, hanno ragione le opposizioni ad individuare una deriva che ricorda il modus operandi del dictator, ma la misura cautelativa è sterile sul piano politico, poiché vi si contrappone un contro-populismo basato più sulla critica distruttiva che costruttiva, le ultime dichiarazioni di Berlusconi e di Renzi lo confermano.

Anche sul piano intellettuale – il cui pensiero è sterile di per sé* se non è poi seguito da azioni politiche – l’individuazione del nemico utilizzando definizioni datate non fa altro che dividere ulteriormente.

*Rimando al mio post precedente su pensiero e azione.

Vediamo insieme.

Neologismi e veterologismi
Nella comunicazione è fondamentale utilizzare i termini giusti che siano appunto correttamente evocativi; parlare di fascismo, nazismo, leninismo o stalinismo – soltanto per citare i più abusati alla bisogna – in contesti che ne richiamano soltanto i profili generali (o addirittura ombre proiettate) può essere controproducente.
Innanzitutto perché chiama a raccolta e a far quadrato attorno all’esponente che – astutamente – né conferma, né smentisce le posizioni (Grillo è un maestro in ciò, Salvini un po’ meno, Di Maio quasi per nulla, autodenunciandosi come un cane messo a catena corta).
E poi perché fornisce un’immagine da dinosauro estinto a chi la propina: non è, quindi, una strategia vincente.

Si dirà che il dovere dell’intellettuale non è essere giovanilistico.
Giusto, tuttavia è bene considerare che i delusi da tutta la politica sono perlopiù distribuiti nella media e terza età, ovvero l’astensione alle urne è maggiormente diffusa tra i più anziani e non c’è più la macchina elettorale del PCI e della DC, che ben sapevano veicolare il voto di questi.
Nella fascia 20-40 anni, invece, c’è lo zoccolo duro del “consenso a prescindere” al M5S e buona parte di quello alla Lega, vuoi per convinzione genuina, vuoi per convenienza relativa, vuoi per identificazione con il leader.

La trasformazione del partito di Salvini (si può oramai definire così) – da secessionista che voleva affondare il resto d’Italia, dalla “padania” in giù, a maggiore espressione nazionalista – è stata un’operazione da manuale del consenso politico, checché se ne dica.
Così come lo è stata l’escalation di Grillo, da imbonitore divertente a capopopolo credibile per buona parte dei delusi non astensionisti, i quali, però, non hanno compreso che il voto non deve essere mai di protesta, poiché – per assunto – ripone maggiori aspettative di quelle auspicabili in personaggi dallo scarso valore politico, ma enorme sul piano comunicativo: la Casaleggio e associati è una macchina da guerra che lavora molto nell’ombra, spingendo volta per volta “frontmen” vincenti sul palco, non scomode teste pensanti, era già passata per Lega e pre IDV, che più che teste pensanti contava teste di pietra.
Tutto con alte possibilità di delusione.

Insomma, la sacralità del voto auspicherebbe l’astensione in caso di non gradimento, esattamente come si fa quando si entra in un negozio, non si trova quel che serve, si vuole uscire a mani vuote, ma il commesso ci trattiene perché ci vuole convincere a comprare un surrogato del prodotto che cerchiamo.
Se ci lasciamo sedurre, la delusione è assicurata, non tanto per la qualità in sé del prodotto sostitutivo acquistato, ma quanto perché, nella nostra mente, ciò che cercavamo era ed è migliore.
Un libero arbitrio recondito alloggia anche nei cervelli meno dotati, anzi, è ancora più forte: di solito chi pensa di sapere è più pericoloso e meno prudente di chi sa.
In sintesi, l’espressione di preferenza è più un diritto personale che un “dovere civico” comunitario*.

*Qui non si predica l’astensione, è soltanto un invito al ragionamento.

La scelta politica non è paragonabile ad acquistare un prodotto?
Vero, è molto più importante: è opportuno scegliere chi ci consentirà o meno di continuare a poterlo acquistare senza dover ricorrere alle tessere annonarie.
Non si tratta di essere moderati, ma neanche di essere sbilanciati a casaccio.

E veniamo finalmente ai totalitarismi
Tutto ciò premesso, ogni volta che l’uomo forte – il dictator – ha fatto capolino, c’erano state sempre “gestioni precedenti” che hanno scontentato il popolo, o peggio.
Il periodo che stiamo vivendo in Italia non è idilliaco, ma è sicuramente meno grave per numero totale di feriti e morti per guerre e fame.
Questo sul dato comune, però, non sul singolo caso.
Non faremo l’errore di prendere la parte per il tutto, ma neanche quello di ignorare situazioni drammatiche: chi non ha soldi per mangiare non è preoccupato dello spread, di quello si preoccupa chi ha ancora qualcosa (o molto) da perdere.
È chi dice "italiani fancazzisti" ad interpretare colui che prende la "parte per il tutto"; la crisi non esiste, i ristoranti sono pieni, etc, etc., per intenderci.

Quale dictator, dunque
Di Maio non ha né il fisico del ruolo, né l’atteggiamento (quando ci prova è ridicolo), né l’eloquenza, né, tanto meno, spalleggiatori interni: il M5S è un’arena piena di belve feroci scalpitanti, dai meetup alle assemblee istituzionali, più che negli altri partiti dove la figura del leader del momento è ben più definita e rispettata, anche se non eterna, come lo sono state (più nel male che nel bene) le figure storiche citate.
Salvini ha soltanto l’aspetto del dictator, ma null’altro: è un comiziante per tutte le sedi, idonee o affatto, fa lo spiritoso senza far ridere, se non i suoi per convenienza (come Grillo o Berlusconi) e spesso è volgare e triviale (idem, con aggiunta di Bossi).
È un Cerbero partorito dall’unione dei suoi modelli e prende in prestito da altri quel che essi non avevano, ma, nonostante questo caleidoscopio caratteriale, risulta monotematico, affatto poliedrico, addirittura noioso.
Non disdegna interviste-trappola (come invece fa l’astuto e altezzoso, ma non saggio Grillo) nelle quali ha modo di riproporre il celodurismo leghista, d’altronde da lì proviene.

La padella e la brace
Il rischio è alto, ma è ancora contenibile.
Già altre manifestazioni populiste in passato sono naufragate per inconsistenza delle tematiche proposte o imposte, ma il prezzo pagato è stato comunque sostanzioso, come ho già detto altrove: il popolo elegge, il popolo distrugge. Insomma, chi di spada ferisce, etc.
Tutto condivisibile?
Non saprei, agli esperti la parola su come evitare che la deriva populista ci faccia irrimediabilmente allontanare dall’approdo.
Se vogliamo risparmiarci il nuovo dictator sarà sufficiente fare un esame di coscienza su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, non siamo ancora alla Repubblica di Weimar, nel Terrore francese o nel preambolo bolscevico, ma sappiate che se ci arriviamo – e la strada è quella – non si torna indietro: vincerà chi ha più armi e munizioni, non soltanto a mo' di metafora.
A nulla varranno gli appelli alla diplomazia.

venerdì 19 ottobre 2018

Il pensiero e l'azione
Volontà, talento, possibilità





Si è già scritto in proposito, lo so.
Non cito, perché da Mazzini in poi (ma anche prima) la lista è lunghissima ed abbraccia (o aborrisce) numerose ideologie, religioni "laicizzate" e surrogati vari.
Spesso il pensiero e l'azione vengono erroneamente considerati "universali", ovvero, chi pensa una cosa, la farà sicuramente, qualora ne abbia – sintetizzando, ovviamente – volontà, talento e possibilità.
Questo impianto, però, genera subito un equivoco che le tre peculiarità elencate – al pari indispensabili e che analizzeremo più avanti – non riescono ad evitare, o meglio: c'è bisogno che tutte e tre siano presenti e soddisfatte (conditio sine qua non) affinché si possa e si voglia procedere correttamente.

Iniziamo con una metafora plausibile e ricorrente, ma non limitante.
Poniamo a confronto due categorie: l'intellettuale e l'agonista (allenatore e giocatore, se preferite, o pedine e pedoni negli scacchi).

Assunto
Il pensiero dell'intellettuale sarà più potente di quello dell'agonista, mentre la sua "spada-penna", sarà più debole, se poi non verrà seguita dai fatti che qualcun altro dovrà "interpretare" e/o attuare.
Per restare in metafora calcistica, un allenatore bravo senza una squadra forte può vincere poco o nulla.
Pertanto, in un romanzo o in un film – come d'altronde nella vita – si palesano, a salire: figuranti (comparse), personaggi, interpreti (appunto) e protagonisti (e antagonisti).

(Da non confondersi con «uomini, mezzi uomini, etc.», questo è un altro discorso che vedremo in un altro post.)

I figuranti o comparse
Si tratta, appunto, di figure anonime, che fanno soltanto da sfondo, ma, senza di esse – come spettatori o come comparse – alla scena mancherebbe qualcosa di fondamentale: la sensazione dell'opinione pubblica, del consenso o del dissenso; insomma, della "democrazia rassicurante", spesso fallace.
Sono quelli che salutano (non soltanto anziani, donne e bambini) i combattenti in partenza o esorcizzano il momento tirando ortaggi e uova marce a colui che è alla gogna o viene trasferito al patibolo sperando di non finirci (oppure tiravano monetine a Craxi o sputavano sul cadavere di Mussolini).
In un ambito militare rappresentano la truppa.
Sono gli orchi o i villici nel Signore degli Anelli, ma stesse categorie si possono trovare in tutte le saghe, come in Guerre stellari, ad esempio.

I personaggi

A differenza delle comparse, parlano e interagiscono, ma conferiscono anche ipotesi di dignità ai figuranti poiché essi – con un colpo di scena – potrebbero essere promossi da un momento all'altro a personaggi; però non avranno mai un ruolo decisivo o definito, per questo entrambi – sia figuranti che personaggi – non possono e non devono diventare interpreti.
Anche loro salutano e tirano ortaggi e uova marce, ma in prima fila, si fanno riconoscere, ce ne ricordiamo.
Sono i sottufficiali in ambito militare.
Sono genericamente gli elfi, i nani e gli hobbit o Shelob, nella fantasia tolkeniana.

Gli interpreti
Hanno un ruolo decisivo e/o definito, si muovono con sicurezza sulla scena oppure sono caratterizzati da eccessiva paura o timidezza; senza di loro la storia non potrebbe svolgersi, di solito muoiono (o spariscono) eroicamente o stupidamente, dipende dal ruolo.
Di più, la loro "scomparsa" può essere da sprone, essere la molla decisiva per la svolta della storia.
Possono essere, infatti, addirittura co-protagonisti o co-antagonisti.
Sono quindi coloro che vanno "a la pugna"; oppure finiscono alla gogna o al patibolo.
Sono ufficiali superiori.
Sono Boromir, Legolas e Gandalf, Vermilinguo e Gollum nel capolavoro di Tolkien.

Tutti componenti delle tre categorie citate finora "fanno" (o non fanno) qualcosa, mentre quelli che impersonificano la successiva – la più importante – non "fanno" soltanto qualcosa, ma "sono" anche qualcuno.
Vediamo.

I protagonisti
(o, più correttamente, proto-agonisti) e antagonisti.
Sono coloro che agiscono e reagiscono spalleggiati (o osteggiati) da personaggi e interpreti, ma questi non sono sufficienti a definirne importanza o coraggio, la grandezza, insomma, l'eroicità immortale.
La "figura" fondamentale in questo ruolo è l'ant-agonista, spesso negativa nei romanzi o lungometraggi "eroici", ma non necessariamente: in un film sulla mafia, visto dall'angolazione dei "cattivi", un capo mandamento è il protagonista negativo, mentre un magistrato è l'antagonista positivo, insomma, non si tratta di valori assoluti.
Sono i comandanti che si pongono alla teste delle truppe "buone", quelli dell'armiamoci e partite in quelle cattive.
Sono Frodo e Aragorn, Sauron (figurato) e Saruman (convertito), sempre nella saga citata.

Completata la carrellata di tipo "cinematografico-storico-militare", torniamo a chi fa che cosa e perché lo fa.
L'azione, dunque.
Da chi è pensata?
Da chi la pianifica, ma poi rimane alla propria scrivania?
Da chi è realizzata?
Da chi la pianifica e da quella scrivania poi si alza?
Oppure è una deduzione "plurale" che trova un "interprete" di comodo con smanie di "protagonismo"?
Come si inseriscono Berlusconi, Grillo, Casaleggio, Di Maio, Salvini e gli altri in questo quadro?

Difficile dirlo, ma in proposito concordiamo con Machiavelli il quale individua i "profeti armati" e quelli disarmati.
I primi avrebbero speranze di fare qualcosa e riuscire nell'impresa, perché sono ambiziosi, impegnati politicamente, schierati ideologicamente e – perché no – pronti ad imbracciare le armi, se necessario; mentre i secondi sono destinati comunque al fallimento, poiché il loro pensiero – seppur giusto – è sterile e non trova seguito, poiché mancante del traino, ma dispone soltanto di una spinta iniziale insufficiente.
I primi sono protagonisti* o antagonisti*, i secondi sono al più interpreti (ma più spesso sono personaggi) dei quali i primi si servono per portare a termine – o sabotare – l'azione.

*Gabriele D’Annunzio, André Malraux e Lord Byron – probabilmente "mitizzati" – rimangono tra i rari casi (relativamente recenti) nei quali sia il pensiero che l'azione sono stati frutto della mente e del braccio appartenenti a medesimo corpo.
NB. Bisogna distinguere le azioni "eroiche" da quelle di pura propaganda, spesso attuate con volontà e possibilità, ma senza talento, come vedremo in seguito.


Volontà, talento, possibilità
Inquadrati gli attori, vediamone le capacità.
Volontà e talento sono presenti in maniera inversamente proporzionale nelle figure estreme: i membri della "democrazia fallace" hanno molta volontà (in teoria), ma poco talento; mentre i protagonisti hanno probabilmente almeno un forte talento, ma scarsa volontà*.

*È più semplice raggiungere la vetta che rimanerci, una volta giunti, la "prudenza" è d'obbligo: ci si fa più male se si cade dal decimo piano che dal primo, ma si considera sempre che – in caso di alluvione – in alto si resta vivi e asciutti, però occorre anche evitare incendi nei quali periscono maggiormente gli abitanti dei piani alti.

La possibilità, invece, si può trovare indistintamente, anche se è più interconnessa* con il talento che con la volontà.

*In proposito, è bene ricordare che il TALENTO è una misura di peso, poi trasformata in valuta (valore) sulla base di quanto, appunto, "pesava" la singola moneta coniata in valore intrinseco ("a peso d'oro", ad esempio).
Successivamente, al TALENTO, è stato attribuito anche un significato etimologico di "dono del Signore" dalle molteplici accezioni: dalla concessione dell'agio del signore (detto signoraggio) a quella religiosa del "dono di natura", inteso come caratteristica peculiare fisica o possesso di capacità particolari, fino ai poteri "medianici" (spesso illusionistici, però).



Conclusione
Possedere molteplici talenti senza volontà (ved. parabola dei…) equivale ad avere volontà senza talenti, in entrambi i casi la "possibilità" è insufficiente.
E quindi a nulla vale averne in quantità: "Con un talento in più si è spesso più insicuri che con uno in meno: come il tavolo sta meglio su tre che su quattro gambe", come sembra abbia affermato Nietzsche, data la forma, ovviamente: un tavolo tondo sta bene su tre gambe, uno quadrato o rettangolare, no.
Il governo attuale poggia su tre gambe (Conte, Salvini, Di Maio), il che, se fosse una "tavola rotonda" (a proposito di saghe) evidenzierebbe una certa stabilità, ma siccome denuncia un talento mancante, si basa su un equilibrio precario.

sabato 6 ottobre 2018

Suicidio politico
La resa dei conti o i conti della resa?

Preambolo
 
Ho letto molto, ma ancora non abbastanza, sul suicidio spontaneo o indotto.
Tralasciando le tecniche utilizzate e i "suicidati" (si allargherebbe troppo il discorso), mi appoggio per semplicità nuovamente a due categorie che, a giudizio di molti, sono oramai desuete.
Se a livello cognitivo razionale ciò è probabilmente vero, non lo è per quanto riguarda l'inconscio (o subconscio) che si appella a un bipolarismo e a una dualità sia "egoica" che plurale, ma non pluralista, se non per interessi di bottega condivisa.
Cioè non stiamo insieme se la pensiamo allo stesso modo, ma se la pensiamo allo stesso modo potremmo essere uniti, salvo clausole in calce.

Potreste obiettare che anche questo scritto ha carattere dualistico, ma è necessario, in sede di analisi, porre a confronto.

I due* principali motivi di suicidio si suddividono in negazione della condivisione della propria vita (voi non mi meritate) e negazione dell'accettazione comunitaria (io non vi merito).
Ciò rinvia direttamente al suicidio pubblico "eroico" (o esplicitamente automartirizzante, più propriamente) del frustrato più o meno obiettivo che vuole dare "alto esempio" – pur avendo coscienza della velleità del gesto, tragicamente nobilitato nel nome di un convinto altruismo – oppure a quello privato con rinvenimento del cadavere, spesso corredato di bigliettino con saluti, scuse e ringraziamenti più o meno autentici.

* Probabilmente nulla di "eroico" in entrambi i casi, ma appunto si tratta – da una parte – di un martirio esplicito che chiede onori alla e dalla storia e – dall'altra – uno implicito, che della storia se ne frega.
Per distinguerli bisognerà capire (e non è difficile) se l'epitaffio sulla lapide lo hanno scritto loro prima di uccidersi, oppure se lo hanno scritto i loro cari dopo la sepoltura sulla base del bigliettino rinvenuto.

Si tratta di soggetti che hanno una visione coerente con l'immaginario di destra (se può esistere una "coerenza immaginaria"), oppure si tratta di un vittimismo più prossimo alla visione di sinistra (del proletario oppresso), ma tendente all'apolitico deluso.
Ovvero la sottile differenza tra il non aver paura di morire (fascismo eroico immaginario) e l'aver paura di vivere (tipico del sottoproletariato vessato o della perdita di status privilegiato non ideologizzata).
Quindi, i primi hanno motivazioni ideologiche altruistiche (o spacciate per tali) mentre i secondi hanno motivazioni meramente economiche egoistiche, ma autentiche.

L'altruista è un filantropo illuso e si aspetta dagli altri attenzioni spontanee, così come egli fa nell'ambito del possibile, d'altronde alcune cose non costano nulla, se non qualche minuto del proprio tempo.

L'egoista è un misantropo disilluso (spesso un ex filantropo deluso) che ha imparato a chiedere, ad esigere e, soprattutto, ad ottenere.

Quando ci si accorge che la seconda opzione è ben più remunerativa della prima, il processo è irreversibile, ma è a termine, poiché, chi chiede, otterrà fin quando ci sarà qualcun altro disposto a dare.
Pertanto il filantropo si "suiciderà" perchè non può più dare, il misantropo lo farà perché non può più chiedere*.

* Scrive in proposito Pierre Drieu La Rochelle, mentendo a se stesso, talentuoso suicida: 
«Quelli che restano, quelli che non si uccidono, sono coloro che hanno talento, che credono nel loro talento.»
a dimostrazione che c'è comunque un termine a tutto.

L'unico vantaggio che ha il suicida, a prescindere dalla tipologia, è che, rispetto ai "comuni mortali" (si distingue già per questo), decide – e quindi conosce esattamente – il momento del trapasso (forse incidendo anche sul destino degli altri) e compie un atto supremo che accomuna coraggio* e vigliaccheria come nulla altro può fare.

* Ben diverso dal morire in eroica battaglia con disparità di forze in campo.
Anche qui, però, ancora destra e sinistra, hanno approccio opposto: l'una mitizza chiedendo rispetto e onore, l'altra piange chiedendo commiserazione, probabilmente entrambe speculano quando usano i morti per un fine che non sia una semplice commemorazione.
Ma anche di questo parlerò in un capitolo di un libro di prossima pubblicazione.


Comunque ogni giorno nasce un furbo e un ingenuo, quindi il processo ha sviluppo più che millenario, fatti salvi accadimenti di portata mondiale che portano a decimare le popolazioni e ad accelerare i tempi.

Esaurito il lungo preambolo, veniamo al dunque
 
A proposito di furbi e di ingenui, ascoltando un comizio di Salvini e uno di Di Maio – non contestuali – ho ravvisato alcune caratteristiche interessanti dei due personaggi.
Partiamo da quelle comuni.
Sono entrambi abbastanza giovani, dispongono di energie più o meno riflesse generate dal consenso e credono nelle favole populiste.

Ed ora le differenze.

Salvini ha qualche anno in più, sia anagrafico, ma soprattutto di esperienza politica: si serve del populismo spontaneo, il partito è lui e lo sa, attira a bordo una massa talmente varia che è praticamente impossibile da incasellare, dai nordisti ai sudisti, dai neofascisti ai veterocomunisti delusi (ovviamente parlo di base, non di vertici).
Un mix di berlusconismo e "mussolinismo" (con cautela, però, il fascismo è altro).

Di Maio, invece, ha una esperienza politica quasi nulla, ma che – secondo i suoi elettori – è più un pregio che un difetto, anzi, è l'unico motivo per il quale siede lì: ha quindi bisogno del populismo veicolato da Grillo, il Movimento non è lui, lo sospetta, ma preferisce non pensarci.

Ora sono sugli altari e sono strafottenti, ma con sfumature diverse:

Salvini interpreta (non è) il bullo ripetente che si è finalmente diplomato, ma non disdegna un linguaggio triviale anche in sedi istituzionali, nelle quali sarebbe auspicabile maggior contegno.
Ricorda Adriano Celentano quando interpretò Rugantino: la parodia di un nordico che vuole piacere al centro-sud per far dimenticare le origini secessioniste della Lega.

Di Maio interpreta (non è) l'assistente universitario quando il titolare della Cattedra è in settimana bianca: vuol far credere che sia lui a decidere, sia per i suoi, sia come influenza sullo scomodo alleato di governo. Ci crede lui, pochi fedellissimi e ancora troppi che hanno votato 5 Stelle.

Visti gli altari, passiamo alle polveri: il 5 maggio 2019 potrebbe essere più che un anniversario francese.
Nel caso di perdita verticale di consenso, di "suicidio politico", che cosa farebbero i due "eroi/martiri"?
Che cosa farebbero i loro fedelissimi?
Dipenderà da quanto hanno dato e da quanto hanno ricevuto.
Filantropia e misantropia non possono essere mascherate per sempre.
Pierre Drieu La Rochelle sarebbe d'accordo.

Reddito di Cittadinanza

Le economie/finanze di uno Stato, di un'azienda privata, di una statale, di un condominio, di una famiglia rispondono a parametri assai diversi per essere correttamente determinate.
Il fallimento non è previsto, se i parametri sono corretti (o supportati).
Quando accade può dispiacere, può essere avvenimento grave o drammatico o addirittura tragico.
Ma non è la bancarotta fraudolenta ad essere un reato, lo è che sia data la possibilità di attuarla e, soprattutto, di farla franca.
La presunzione di evasione fiscale è, invece, l'altra faccia della medaglia, ovvero si consente ai furbetti di "provarci" e si annientano come fossero criminali i contribuenti che hanno subita una flessione negativa del fatturato per motivi peraltro non difficili da individuare, in due parole: pressione fiscale.
Che si spacci il reddito di cittadinanza per la panacea alla povertà è doppiamente disonesto: per presunta attuabilità e – nel caso fosse attuabile – per manifesta offesa alla dignità e nei confronti di chi da decenni paga tasse esorbitanti sul proprio fatturato.
Ribadisco, se l'azienda chiude, il gettito è pari a 0%, fenomeni.
Inoltre occorre considerare da dove provenga il dato maggiore sull'evasione, probabilmente non da scontrini non battuti, ma da plusvalenze (speculazioni) che sfuggono (?!?) ai controlli, dal gioco d'azzardo legalizzato, dalle manovrine a "mercati chiusi" e dai trucchetti relativi.
Pensare che il Mercato sia un moloch al quale sacrificare aziende e persone è sbagliato sia dall'angolazione complottista, sia da quella possibilista con posizione ineluttabile.
È una mia opinione, ovviamente, gli economisti non saranno d'accordo, ma d'altronde non possono segare il ramo sul quale stanno comodamente seduti.
Mi piace concludere con la frase di Luigi Einaudi che ogni economista dovrebbe tenere incisa nel marmo appesa ad una parete del proprio studio professionale:
“La frode fiscale non potrà essere davvero considerata alla stregua degli altri reati finché le leggi tributarie rimarranno vessatorie e pesantissime e finché le sottili arti della frode rimarranno l’unica arma di difesa del contribuente contro le esorbitanze del fisco”.
Se è vero come è vero che per visione umana la schiavitù deve essere eliminata, non capisco perché si percorrano strade che perseguono l'obiettivo opposto.

sabato 15 settembre 2018

1978-1998-2018

Quaranta anni imbarazzanti


Su "I fratelli della Garbatella"

Meloni, Berlusconi, Salvini (foto Archivio Repubblica)

20 anni fa, nel 1998, si andava a Milano per discutere se Linea fosse più fruibile sul tabloid o su "elefante", come chiamavano il formato 70/100 aperto, in rotativa.
Se fosse preferibile impaginarlo a sette o a nove colonne, in Frutiger o in Times, se si dovesse prevedere occhiello, titolo e catenaccio anche di spalla, pancia e piede, oltre che in "apertura di testa".
Se si dovessero alternare caratteri "bastoni" con "grazie".
Insomma, un problema molto discusso nell'ambiente, anche se di tutt'altro significato: "apertura di testa" con "bastoni" negli anni di "piombo" valeva sia in tipografia che nei ciclostilati delle sezioni clandestine nel '77-'78.

Ma erano periodi avventurosi, meno violenti o di una violenza diversa da quelli citati, comunque non condivisi dalla mia famiglia, titubante sugli esiti e timorosa degli effetti.
Mio padre ha sempre preferito lasciarmi sbagliare da solo (frutti e conseguenze saranno soltanto tuoi, diceva, ma cattivo profeta in parte, purtroppo) e mia madre non è mai stata una crocerossina, anche se negli ultimi anni sono loro ad aiutare me, anziché il contrario.

Partimmo.
Fummo accolti – in una redazione troppo ordinata che elaborava un noto periodico altrettanto elegante – da un distinto signore che conoscevo di fama e di vista, ma non di persona.
Egli dispensò consigli tecnici e discutemmo delle problematiche di un quotidiano, che peraltro conoscevo già bene.
Avevo 32 anni e avevo maturato in precedenza un'esperienza decennale nel settore, tuttavia, misi da parte la mia spocchia tecnica e aprii occhi e orecchie (forse turandomi il naso) più speranzoso che cosciente del fatto che avevo a "portata di mouse" l'occasione per salutare con sonora pernacchia (e gesto dell'ombrello) vecchi clienti tirchi ed editori meno avari, ma insopportabilmente bizzosi.
Cosa che – col senno del poi – mi è costata la terra bruciata intorno di oggi, sia sul piano commerciale che su quello politico.
Sopravvissero soltanto vecchie amicizie apolitiche consolidate che erano più intente a fornire aiuto morale anziché chiedere soldi, nonostante fossi sparito ai loro occhi per 13 anni, totalmente assorbito dal lavoro – estenuante – che svolgevo per Linea.
Li ringrazio: amicizia, lavoro e politica devono restare su piani distinti, l'ho capito a mie spese.

Torniamo a Milano.
Il viaggio andata e ritorno in treno senza pernottamento fu un tour de force, oggi non reggerei allo stress psicofisico, soprattutto pensando all'utilità reale che ebbe, ma era una "cosa da fare", fortemente "auspicata e consigliata" da Pino Rauti che riponeva una sincera ed oculata stima professionale ed ideologica nell'uomo distinto che incontrammo a Milano.
Dimostrando, peraltro, un'apertura mentale "nazionale" e non provinciale, se non comunale, se non "di quartiere", come quella evidenziata dagli articoli linkati in fondo sulla gestione di Fratelli d'Italia e di Giorgia Meloni.

Non perdiamo il filo, però.
Inizialmente provavo invidia (positiva) per quella persona affermata e sicura di sé, avrei voluto essere al suo posto, ma quasi subito razionalizzai: era già un ottimo risultato essere stato scelto dal Segretario del Movimento Sociale Fiamma Tricolore come interlocutore degno di sedere a quel tavolo decisionale, in fondo egli aveva dimostrato stima anche in me, nel "signorino nessuno" che ero, ma più per merito guadagnato sul campo, che per blasone di famiglia: una rarità della quale sono tuttora fiero.

Tuttavia ero scettico – sono sincero – inoltre, tornare in quella Milano dove avevo prestato spensieratamente il servizio militare 12 anni prima, mi provocò un sentimento di amore-odio: non era più la Milano da bere Craxiana pre-tangentopoli di Pillitteri succeduto a Tognoli, era diventato il posto nel quale invidie e sospetti avevano preso il posto dell'imprevidente ottimismo edonista degli yuppies, sebbene Berlusconi (con Formentini, Albertini e poi Moratti) lasciasse sperare in aperture verso quella destra più moderata inaugurata da Gianfranco Fini, con Alleanza Nazionale, ma che finì come sappiamo, però, con l'esperimento fallimentare di Futuro e Libertà, una sorta di Liberi e Uguali visto da destra.

Ovunque carrozze e carrozzoni con predellino abbassato a disposizione per chiunque avesse "abiurato" il "Male assoluto", un esercizio di coerenza che, alla prova dei fatti, molti fallirono.
Chi per continuità e fedeltà intransigente alla "camicia nera", chi perché indossò (o tolse) la maschera che fino a quel punto gli aveva consentito – e gli avrebbe permesso – di continuare a galleggiare nello stagno politico post-tangentopoli.

È con sincera meraviglia che oggi leggo articoli sui "Fratelli della Garbatella", si tratta forse di un risveglio da quella che è stata negli ultimi venti anni l'illusione autodistruttrice della destra contemporanea?
Quella che ha visto i colonnelli lasciare il passo ai caporali, sperando che nuove verginità spalancassero le gambe ai vecchi marpioni, per intenderci.

Il tempo delle iene mascherate volge al termine, quindi: hic sunt leones, come piace ripetere a un caro amico.

http://www.destra.it/destre-al-bivio-per-fdi-uno-stop-definitivo-o-una-vera-ripartenza/
https://www.electoradio.com/mag/commentarii/la-destra-si-e-stufata-dei-fratelli-della-garbatella/

domenica 2 settembre 2018

IMMIGRAZIONE
Ancora sul "Cattaneo"

Scritto di Carlo Cattaneo risalente al 3 luglio 1848.
Sulle barricate contro l'invasore austriaco nelle 5 giornate di Milano,
quando il liberalismo auspicava "l'Italia degli italiani".

Sarò sincero, non avrei voluto scrivere quanto segue (non ho bisogno di altri nemici e spero di non essere frainteso), ma vi sono obbligato per amor di verità.
Pertanto non parlerò del tempo meteorologico, ma dei tempi bui che stiamo vivendo: spacco il capello in quattro perché non mi fido.
Di nessuno.
E faccio bene, dato il panorama.
A chi giova tutto ciò? Non lo so, per questo chiedo, indago, "sbertuccio" in maniera che può sembrare insolente: sono stanco di fanfaluche che gonfiano le vele a questa o a quella barca, ma non alla barca sulla quale stiamo tutti.

Dando per corretti i dati dell'analisi del rispettabile Istituto Cattaneo (poi vedremo in dettaglio) e i numeri ufficiali sull'immigrazione, in Italia "si vedrebbe triplo" nella percezione sulla presenza migratoria perché:
- non c'è una classe politica affidabile che dia l'impressione di amministrare correttamente;
- non c'è una informazione libera e svincolata da interessi di bottega, né "complottista", né main stream, pro o contro;
- siamo la "lunga e stretta portaerei del Mediterraneo" (con vantaggi e svantaggi, sicuramente);
- ospitiamo il Vaticano (o siamo ospiti del Papa?) che gestisce una vasta fascia di consenso elettorale, nel bene e nel male;
- siamo il punto di attracco più comodo, esteso e sguarnito (vedere Schengen).
- l'Europa non è quel che dice di essere, non lo è mai stata, fin dal 1815 ad oggi e bene facevano i massoni della Giovine Italia a non fidarsi, come me.

Ho letto Schengen e Maastricht allo sfinimento (non soltanto il depliant sotto, sciocchini), alla nausea, e – politichese e burocratese permettendo – ne ho ravvisato quei segni premonitori (non saprei se ingenuamente auspicati o ben mascherati da benefici per i Paesi aderenti) puntualmente avveratisi che hanno dato al populismo una ragion d'essere negli Stati che hanno risentito negativamente delle politiche imposte dai trattati firmati in nome e per conto dei popoli.
Altro che autodeterminazione.

Dimitris Avramopoulos, sarebbe interessante misurarne il consenso in Grecia.
Ragion d'essere probabilmente pretestuosa, ma questo è il risultato.
Per alcuni deprimente, per altri esaltante, è la politica, bellezza…

In altre parole, nelle altre nazioni (anche per configurazione geografica, soltanto Grecia e Spagna ci somigliano per posizione e disposizione), ipotizzo che il popolo si senta più tutelato, addirittura anche nelle "banlieue" (periferie) francesi, superato il momento del pugno di ferro di Sarkozy o il "pericolo" Le Pen, ma vedremo meglio nello svolgersi del ragionamento.

Questo il fatto inconfutabile, poiché sia i dati sul consenso populista, sia l'atteggiamento spavaldo dei comprimari o quello prudente – ma velenoso – degli avversari lo confermano.

Che l'analisi del "Cattaneo" sia rivolta agli specialisti (non alle "capre") e che ne facciano l'uso che ritengono giusto è fuor di dubbio, ma anche io – che sono un caprone testardo – ne faccio l'uso che ritengo giusto, sollevando perplessità in merito, non sulla sostanza generale, ma sul metodo di ripartizione utilizzato.
Ho diritto di parola, parlo, grazie. È la democrazia, …

NB. Non sono pagato né da loro, né dai "concorrenti", magari lo fossi: starei zitto "al calduccio" o sarei molto più critico, magari pagato da Salvini.

Ma veniamo al sodo, cioè all'analisi dello studio dell'Istituto Cattaneo, del quale avevo già fatto esame approfondito.

L'equivoco potrebbe nascere dal quesito posto, ovvero la domanda rivolta agli intervistati era la seguente:
«Per quanto ne sa Lei, qual è la percentuale di immigrati rispetto alla popolazione complessiva in Italia? ».
Ma con postilla (non si capisce se comunicata all'intervistato):
«Va precisato che, in questo sondaggio, per “immigrati” si intendono soltanto le persone nate fuori dai confini dell’Unione Europea e che attualmente risiedono legalmente nel nostro Paese».

Doppio tranello?

1) domandare a un europeo o a un australiano quanti canguri ci sono nel mondo fornirà risposte molto diverse esattamente come domandare a un montanaro della Val di Fiemme o a un bagnino di Rimini quanti "vu cumprà" (scusate il "razzismo") ci sono sui litorali italiani; uno sbaglierà per difetto, l'altro per eccesso.
In sostanza – se di percezione si parla – chi ne vede di meno, immagina che siano di meno; chi ne vede di più, immagina che siano di più.
Lapalissianamente semplice.

2) ammesso e non concesso che la postilla sia stata recitata all'intervistato, come fa questi a sapere se chi vede o immagina (parliamo di percezione iniziale che genera lo studio, non dello studio finale) sia nato in Italia o altrove e che sia "naturalizzato"?

Ma proseguiamo.
È vero che su medesime domande negli altri Paesi a parità di condizioni (ceteris paribus) hanno risposto con minor margine di errore per eccesso, ma è anche vero che (cito ancora il "Cattaneo"):
«Il primo dato che emerge dalla nostra analisi (figura 1) è che, nell’intero contesto europeo, all’incirca un terzo dei rispondenti (31,5%) non sa fornire una risposta sulla percentuale di immigrati che vivono nei loro paesi.
In alcuni casi (Bulgaria, Portogallo, Malta e Spagna) la percentuale di chi non sa rispondere supera abbondantemente il 50%, mentre l’Italia si attesta al di sotto della media europea.
Infatti, gli italiani che non sanno rispondere sono “soltanto” il 27% del campione».


Come a dare per scontato che gli italiani hanno risposto di più e hanno la risposta pronta perché sarebbero più razzisti degli altri?
Ho frainteso?
Può darsi, ma questo lo leggiamo nella prima pagina, non nell'ultima, ad analisi completata.
È la stessa cosa?
Per niente.
La disposizione del testo è stata fatta dopo l'indagine e il dato è stato posposto?
Sicuramente, ma l'approccio psicologico di chi legge è assicurato in favore di una attendibilità del documento.

Attendibilità da verificare in ultima pagina, dove si legge come sia stato conseguito il dato finale in distribuzione di frequenza.


Nello specchietto in ultima pagina dello studio vengono riportate le percentuali rilevate sul campione analizzato.

Facciamo finta di non sentire gli scricchiolii del ponte Italia e continuiamo fiduciosi: prendiamo per buono il dato parziale acquisito.
Rimane la percezione "aumentata", quindi: bene (anzi, male), ho esposto riserva esauriente nel post precedente e ho cercato di argomentare in merito distinguendo sottotipologie di "razzismi" comunque egualmente deprecabili: ho ascoltato con il mio udito commenti di insospettabili "signore" che farebbero sembrare Hitler e Stalin due scolaretti innocenti.
Tuttavia ribadisco – e tenacemente – che nelle periferie la percezione non è affatto esagerata, lo vedo con i miei occhi, non con quelli di un sondaggio a campione ristrettissimo.

Ciò non toglie, anzi minaccia, che avallare le tesi del "Cattaneo" in una situazione bollente di dissenso e voto di protesta come questa potrebbe rivelarsi un clamoroso autogoal per chi volesse servirsene per smontare i populismi e le tesi di Salvini.
Come si dice, uomo avvisato…

Questo è il punto centrale: io ho analizzato il dato con conforto di cifre a confronto, ma il popolino non farebbe neanche questo, liquidando l'analisi come una contestazione a Salvini, aumentandogli il consenso in maniera esponenziale.

Ed ora una domanda, anzi alcune.

In periferia la densità di popolazione per Kmq è superiore che in centro o in quartieri residenziali, nonostante ciò, la presenza straniera è "percepita" assai elevata in proporzione.
Dovrebbe essere il contrario: dove ci sono più puntini "bianchi", quelli "neri" dovrebbero essere maggiormente "diluiti" e meno evidenti come massa, ma evidentissimi come eccezione, come lo è una goccia di sangue sulla neve.
Perchè, invece, in periferia la "neve" diventa "rossa", anzi "nera" (come presenze e come "fascismi")?
Forse perché in un appartamento alloggiano da 1 a 4 italiani e in quello attiguo di medesima ampiezza si affollano 20 extracomunitari?
Come dite?
Lo hanno fatto anche i nostri avi quando emigravano?
Benissimo, non dimentichiamolo: potremmo doverlo fare di nuovo anche noi.
Se gli extracomunitari "percepiti" avessero tutti diritto di voto, voterebbero forse Di Maio, più probabilmente PD e dintorni, ma non certo Salvini.
E se non hanno diritto di voto, perché non lo hanno?
Non sono regolari?
Un'ingiustizia?
Può darsi, ma, in caso affermativo, le tesi del "Cattaneo", andrebbero a farsi benedire da Bergoglio, che – infatti, imbarazzato – ogni giorno cambia versione sui fatti e dirotta gli "accolti" dal Vaticano sul territorio nazionale.

A sorpresa (ma neanche troppo, per chi capisce di spostamenti di bacini di voto) il consenso elettorale a Salvini, per "osmosi razzista", giungerebbe proprio da quelle fasce – per stessa ammissione del "Cattaneo"* – che quaranta anni fa avrebbero votato per Berlinguer e Compagni vari e che popolano le periferie, ma che oggi schifano delusi il PD e mal sopportano gli extracomunitari stipati nell'appartamento attiguo.
Mettere italiani contro italiani non è mai una bella idea, figurarsi mettere stranieri contro italiani.
Non parlo di etica, ovviamente, ma di opportunismo elettorale.

* Sulla questione cito di nuovo un passo dello studio dell'Istituto Cattaneo:

«Un altro fattore in grado di spiegare i diversi livelli nella percezione del fenomeno migratorio in Italia riguarda la sfera professionale dei cittadini.
In particolare, sono i lavoratori manuali o a bassa qualifica quelli che considerano maggiormente a rischio la loro occupazione e che, quindi, possono avvertire come una minaccia la presenza o l’arrivo di persone straniere.
Al contrario, i lavoratori che svolgono mansioni altamente qualificate non vedono necessariamente messo in pericolo il proprio posto di lavoro dagli immigrati.
Pertanto l’occupazione professionale degli intervistati potrebbe avere un effetto sui loro orientamenti nei confronti dell’immigrazione.
Dai dati riportati nella figura 6, sembra effettivamente essere questo il caso: i lavoratori appartenenti alle classi medio-alte tendono a sottostimare di circa 5 punti percentuali – rispetto al valore medio nel campione italiano (25%) – la presenza di immigrati in Italia.
Invece, tra chi ha una professione riconducibile alla classe operaia (specializzata e non-specializzata) la percentuale di immigrati tende ad essere ulteriormente sovrastimata, superando il 28%.»  


Come a dire: i poveracci sono razzisti per partito preso? (o per difesa del proprio lavoro e paura di perderlo non tutelati? aggiungo io), mentre i ricchi e i raccomandati non temono l'immigrazione dalle loro "torri d'avorio"? 
La frase «le barricate e li operai vanno insieme oramai come il cavallo e il cavaliere» dal passo di Carlo Cattaneo sembra esser stata dimenticata.

A prescindere dall'analisi, basata comunque su un campione, si evidenzierebbe un atteggiamento "classista", ovvero una sorta di razzismo al contrario verso gli italiani "meno fortunati" o ignoranti?

Inoltre – paradossalmente – i proletari "comunisti" delusi voterebbero il Salvini "fascista" o – i più ingenui – il Di Maio "onesto", mentre i componenti della classe medio alta (sempre meno numerosa) voterebbero o l'area berlusconiana e dintorni, oppure il PD, a seconda della simpatia "radical".
Se è vero come è vero che le urne premiano i numeri e che questi vengono dal popolo – appunto, numeroso – non c'è da meravigliarsi se l'esito delle votazioni sia stato quello ottenuto nelle ultime consultazioni elettorali.

Insomma, non è la strada ispirata dall'Istituto Cattaneo (e credo non sia nelle loro intenzioni ispirare nulla) quella da seguire per contrastare i populismi.

In chiusura, il curatore dello studio, Marco Valbruzzi, afferma:
«Nell’insieme, emergono dunque differenze sostanziali tra gli atteggiamenti degli italiani e quelli degli europei sulla questione dell’immigrazione e delle loro conseguenze socioeconomiche.
Almeno in parte, queste differenze sembrano essere anche il prodotto di una errata percezione del fenomeno migratorio: chi ne ingigantisce la portata, è indotto anche a ingigantirne le conseguenze.»


Sulla base di quanto ho argomentato in precedenza, siamo di fronte ad una conclusione non applicabile alla totalità degli italiani?
Probabilmente.

Ma subito dopo, quasi a minimizzarne l'importanza, aggiunge:
«Però, sarebbe sbagliato pensare che il tema dell’immigrazione sia soltanto una questione di mal-percezione: perché i suoi effetti sugli atteggiamenti dei cittadini sono concreti e reali.
Ed è soprattutto con quelli che la politica e i partiti devono fare i conti».


La montagna ha partorito il topolino?
È evidente che questo studio, fine a se stesso (in fin dei conti il "Cattaneo" svolge un compito apolitico, o almeno dovrebbe), non debba essere preso ad esempio e dimostrazione e rivelazione di chissà quale verità rivelata.
Cerchiamo di essere oggettivi nel già confuso contesto informativo.



Mi preme sottolineare che non giustifico, né avallo razzismi e populismi di alcun genere, semplicemente cerco di documentarmi e documentare e – soltanto dopo averlo fatto – cerco di porre a confronto le varie tesi, per quel che mi è possibile fare con i pochi mezzi che ho a disposizione.

La disinformazione o la sottile e subdola manipolazione dell'informazione possono nascondersi ovunque ed è sempre più difficile scovarle, nonostante (o malgrado) la diffusione capillare sia accessibile a tutti, purtroppo e per fortuna.

Rispetto il liberalismo e le teorie che hanno fatto del mondo un posto migliore (o almeno ci hanno provato), ma mi sento di affermare che i primi a dover essere riformati sono coloro che le riforme dovrebbero attuarle e che, soprattutto, non credono nel liberalismo, ma in tutt'altro, oppure in quello d'accatto rappresentato dal far assurgere a "tesi portante" un sondaggio a campione.

Non sono io a non rispettare il liberalismo autentico, anzi, ne studio l'attuazione: hai visto mai che domani toccherà a me fare qualcosa per questa Italia che amo, forse da timido patriota, ma non da sovranista ingenuo, né da nazionalista estremista, né da eroe, men che meno da martire (sempre che qualcuno non voglia "gambizzarmi" per quel che ho scritto).
Lo farò, se avverrà, semplicemente da italiano.



In appendice vorrei portare alla vostra attenzione questo passaggio tratto dal libro:


«La necessità di sminuire l’apporto popolare alle insurrezioni e il rischio che con questo prendesse vita un movimento rivoluzionario più forte e radicato nella popolazione italiana, con sempre maggiore consapevolezza dell’idea di unità nazionale, fu altrettanto forte nel versante avversario.
Non a caso, subito dopo la restaurazione seguita ai moti del 1848-1849, il giornale tedesco “Ausgsburger Allgemeine Zeitung”, ritenne opportuno sostenere la tesi che il movimento nazionale italiano fosse composto da “[...] un raggiro di pochi nobili, di pochi individui della razza bianca, la quale opprimeva e spolpava la razza bruna, indigena delle campagne d’Italia”.
Argomento questo agitato dalla stampa austriaca anche in altre parti inquiete dell’Impero, percorse dagli stessi nuovi fenomeni di partecipazione popolare di massa.»

«… pochi individui della razza bianca, la quale opprimeva e spolpava la razza bruna…»
Vi ricorda qualcosa?