giovedì 25 ottobre 2018

I totalitarismi sono tutti uguali?
Sì e No

Matteo Salvini come Benito Mussolini.
La vignetta di Mannelli pubblicata sulla prima pagina del Fatto quotidiano.

Tra entusiasmi nazionalisti/sovranisti e incondizionata fiducia nell’Unione Europea prendiamo una prudente distanza da entrambe le visioni, ma cerchiamo di comprenderne i motivi che le animano.

Da una parte abbiamo la rappresentanza di governo e relativi sostenitori non proprio amalgamati: Salvini e la Lega rappresentano la vecchia politica, mentre Di Maio e i 5 Stelle sono il nuovo "nuovo che avanza", riciclando intuizioni pubblicitarie berlusconiane che vanno per i trenta anni.

Per evitare commistioni con il “vecchio che è avanzato” è stato coniato lo slogan “Governo del cambiamento”.

Questo “cambia Mento” entusiasma i grillini ed è accettato dalla Lega per gioco di ruolo, ma al tempo stesso evoca un altro mento, quello del mascellone italico fascista.

Infatti, sia Salvini che Di Maio, ma su posizioni differenti, usano – più o meno bene – l’intransigente adagio, ma non troppo del “chi non è con me, è contro di me” cui seguono ineluttabilmente “Nel fuoco mi tempro” e lo sconsiderato – a mio giudizio – “Molti nemici, molto onore”.

Dall’altra, in questo, quindi, hanno ragione le opposizioni ad individuare una deriva che ricorda il modus operandi del dictator, ma la misura cautelativa è sterile sul piano politico, poiché vi si contrappone un contro-populismo basato più sulla critica distruttiva che costruttiva, le ultime dichiarazioni di Berlusconi e di Renzi lo confermano.

Anche sul piano intellettuale – il cui pensiero è sterile di per sé* se non è poi seguito da azioni politiche – l’individuazione del nemico utilizzando definizioni datate non fa altro che dividere ulteriormente.

*Rimando al mio post precedente su pensiero e azione.

Vediamo insieme.

Neologismi e veterologismi
Nella comunicazione è fondamentale utilizzare i termini giusti che siano appunto correttamente evocativi; parlare di fascismo, nazismo, leninismo o stalinismo – soltanto per citare i più abusati alla bisogna – in contesti che ne richiamano soltanto i profili generali (o addirittura ombre proiettate) può essere controproducente.
Innanzitutto perché chiama a raccolta e a far quadrato attorno all’esponente che – astutamente – né conferma, né smentisce le posizioni (Grillo è un maestro in ciò, Salvini un po’ meno, Di Maio quasi per nulla, autodenunciandosi come un cane messo a catena corta).
E poi perché fornisce un’immagine da dinosauro estinto a chi la propina: non è, quindi, una strategia vincente.

Si dirà che il dovere dell’intellettuale non è essere giovanilistico.
Giusto, tuttavia è bene considerare che i delusi da tutta la politica sono perlopiù distribuiti nella media e terza età, ovvero l’astensione alle urne è maggiormente diffusa tra i più anziani e non c’è più la macchina elettorale del PCI e della DC, che ben sapevano veicolare il voto di questi.
Nella fascia 20-40 anni, invece, c’è lo zoccolo duro del “consenso a prescindere” al M5S e buona parte di quello alla Lega, vuoi per convinzione genuina, vuoi per convenienza relativa, vuoi per identificazione con il leader.

La trasformazione del partito di Salvini (si può oramai definire così) – da secessionista che voleva affondare il resto d’Italia, dalla “padania” in giù, a maggiore espressione nazionalista – è stata un’operazione da manuale del consenso politico, checché se ne dica.
Così come lo è stata l’escalation di Grillo, da imbonitore divertente a capopopolo credibile per buona parte dei delusi non astensionisti, i quali, però, non hanno compreso che il voto non deve essere mai di protesta, poiché – per assunto – ripone maggiori aspettative di quelle auspicabili in personaggi dallo scarso valore politico, ma enorme sul piano comunicativo: la Casaleggio e associati è una macchina da guerra che lavora molto nell’ombra, spingendo volta per volta “frontmen” vincenti sul palco, non scomode teste pensanti, era già passata per Lega e pre IDV, che più che teste pensanti contava teste di pietra.
Tutto con alte possibilità di delusione.

Insomma, la sacralità del voto auspicherebbe l’astensione in caso di non gradimento, esattamente come si fa quando si entra in un negozio, non si trova quel che serve, si vuole uscire a mani vuote, ma il commesso ci trattiene perché ci vuole convincere a comprare un surrogato del prodotto che cerchiamo.
Se ci lasciamo sedurre, la delusione è assicurata, non tanto per la qualità in sé del prodotto sostitutivo acquistato, ma quanto perché, nella nostra mente, ciò che cercavamo era ed è migliore.
Un libero arbitrio recondito alloggia anche nei cervelli meno dotati, anzi, è ancora più forte: di solito chi pensa di sapere è più pericoloso e meno prudente di chi sa.
In sintesi, l’espressione di preferenza è più un diritto personale che un “dovere civico” comunitario*.

*Qui non si predica l’astensione, è soltanto un invito al ragionamento.

La scelta politica non è paragonabile ad acquistare un prodotto?
Vero, è molto più importante: è opportuno scegliere chi ci consentirà o meno di continuare a poterlo acquistare senza dover ricorrere alle tessere annonarie.
Non si tratta di essere moderati, ma neanche di essere sbilanciati a casaccio.

E veniamo finalmente ai totalitarismi
Tutto ciò premesso, ogni volta che l’uomo forte – il dictator – ha fatto capolino, c’erano state sempre “gestioni precedenti” che hanno scontentato il popolo, o peggio.
Il periodo che stiamo vivendo in Italia non è idilliaco, ma è sicuramente meno grave per numero totale di feriti e morti per guerre e fame.
Questo sul dato comune, però, non sul singolo caso.
Non faremo l’errore di prendere la parte per il tutto, ma neanche quello di ignorare situazioni drammatiche: chi non ha soldi per mangiare non è preoccupato dello spread, di quello si preoccupa chi ha ancora qualcosa (o molto) da perdere.
È chi dice "italiani fancazzisti" ad interpretare colui che prende la "parte per il tutto"; la crisi non esiste, i ristoranti sono pieni, etc, etc., per intenderci.

Quale dictator, dunque
Di Maio non ha né il fisico del ruolo, né l’atteggiamento (quando ci prova è ridicolo), né l’eloquenza, né, tanto meno, spalleggiatori interni: il M5S è un’arena piena di belve feroci scalpitanti, dai meetup alle assemblee istituzionali, più che negli altri partiti dove la figura del leader del momento è ben più definita e rispettata, anche se non eterna, come lo sono state (più nel male che nel bene) le figure storiche citate.
Salvini ha soltanto l’aspetto del dictator, ma null’altro: è un comiziante per tutte le sedi, idonee o affatto, fa lo spiritoso senza far ridere, se non i suoi per convenienza (come Grillo o Berlusconi) e spesso è volgare e triviale (idem, con aggiunta di Bossi).
È un Cerbero partorito dall’unione dei suoi modelli e prende in prestito da altri quel che essi non avevano, ma, nonostante questo caleidoscopio caratteriale, risulta monotematico, affatto poliedrico, addirittura noioso.
Non disdegna interviste-trappola (come invece fa l’astuto e altezzoso, ma non saggio Grillo) nelle quali ha modo di riproporre il celodurismo leghista, d’altronde da lì proviene.

La padella e la brace
Il rischio è alto, ma è ancora contenibile.
Già altre manifestazioni populiste in passato sono naufragate per inconsistenza delle tematiche proposte o imposte, ma il prezzo pagato è stato comunque sostanzioso, come ho già detto altrove: il popolo elegge, il popolo distrugge. Insomma, chi di spada ferisce, etc.
Tutto condivisibile?
Non saprei, agli esperti la parola su come evitare che la deriva populista ci faccia irrimediabilmente allontanare dall’approdo.
Se vogliamo risparmiarci il nuovo dictator sarà sufficiente fare un esame di coscienza su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, non siamo ancora alla Repubblica di Weimar, nel Terrore francese o nel preambolo bolscevico, ma sappiate che se ci arriviamo – e la strada è quella – non si torna indietro: vincerà chi ha più armi e munizioni, non soltanto a mo' di metafora.
A nulla varranno gli appelli alla diplomazia.

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