lunedì 29 ottobre 2018

Report corregge il tiro sull’editoria

Il Movimento della sega
e il pianto del coccodrillo


L'immagine si ferma al 2016, le cose stanno peggiorando.

Report, il noto e ventennale programma del palinsesto RAI – sì, quella del canone – smorza i toni e dismette i panni inquisitori per tornare a quelli più consoni (vedremo stasera, però), da inchiesta giornalistica, dopo che Milena Gabanelli è passata dall’essere proposta come papabile Presidente della Repubblica a defenestrata.


Già dal titolo della puntata sul “contributo” all’editoria, “Un equo finanziamento”, che andrà in onda oggi, alle 21,15, su RAITRE, traspare – se non una vera e propria inversione di tendenza – quantomeno una brusca sterzata con frenata.
Cautela probabilmente dettata dal fatto che si sono accorti di aver dato la stura al “Movimento della sega”, quello che prima o poi taglierebbe anche il ramo dell’albero sul quale sono seduti anche i giornalisti in ambito RAI, anche se il "terzo canale" è ancora saldamente in mano alla sinistra, infatti impostano la trasmissione mischiando le carte contro l'odiato "padrone" che sfrutta i poveri giornalisti. Vero fino ad un certo punto, e più spesso in giornali che il contributo non lo percepiscono, come vedremo.

La puntata è il seguito di quella che diede fuoco alle polveri nel 2006, infoiando poi grilli furbi, grillini invidiosi e grilletti facili, ed è sempre a cura di Bernardo Iovene (allora freelance, chissà se l’hanno contrattualizzato), ma che si intitolava “II finanziamento quotidiano” (https://www.raiplay.it/video/2009/01/Report---Il-finanziamento-quotidiano-9ddb997e-e18b-43d2-aab9-4f3d03bf6eea.html), un modo subdolo per dire: “ah, ci costi, quanto ci costi!?”.*

*A mio giudizio, nella puntata del 2006 ci furono una serie di imprecisioni e un modo di condurre l'inchiesta discutibile, giungendo a conclusioni su basi di ragionamento eccepibili, come ad esempio chiedere ad edicolanti a campione se conoscessero Linea Quotidiano, anziché mostrare i tabulati ufficiali delle distribuzioni nazionali per verificare le piazze e le edicole servite in queste, soltanto per citare una balla macroscopica.
A mie richieste di contraddittorio, non ebbi alcuna risposta.

Ma leggiamo da 
http://www.report.rai.it/dl/Report/puntata/ContentItem-59dfb7b7-bfed-4307-83b5-0d77b5d10e9d.html

«I finanziamenti diretti ai giornali vanno a cooperative di giornalisti, come il Manifesto, e a società controllate da cooperative, come Italia Oggi.
Sono finanziate anche fondazioni come quella che fa capo alla Cei, nel caso di Avvenire, e come la San Raffaele degli Angelucci per Libero.
[1]


I giornali che ricevono un contributo diretto sono 54, costano allo stato 60 milioni di euro, ma l’80 per cento dei finanziamenti viene diviso tra 20 quotidiani.
[2]


Il nuovo governo ha annunciato il taglio di tutti contributi, anche di quelli indiretti, complessivamente parliamo di 180 milioni di euro. [3]


Il sottosegretario Vito Crimi spiega alle nostre telecamere come e quando avverrà.
Dall’altra parte ci sono gli editori rappresentati dalla Fieg, che invece chiedono un intervento per far fronte alla crisi.
[4]


In un’intervista esclusiva a Report Urbano Cairo dichiara invece di non chiedere aiuti pubblici. [5]


Nel panorama dei quotidiani reggono molto bene quelli locali, che vivono ancora grazie ai propri lettori.
[6]


Come, per esempio, la Libertà di Piacenza, la Gazzetta di Parma, ma anche il Gazzettino, il Mattino di Padova e la Tribuna di Treviso e le cronache locali di Repubblica e Corriere della Sera, dove però lavorano centinaia di giornalisti collaboratori a 2, 4, 6, 9 euro ad articolo, ne scrivono anche 5 al giorno con uno stipendio che non arriva a 1000 euro, anche dopo decenni di collaborazione continuativa.» [7]

Ed ora analizziamo punto-punto

1] Le cooperative e le fondazioni
In Italia ci sono coop. di ogni genere, da quelle necessarie e che possono permettersi di sopravvivere soltanto grazie a sgravi fiscali consentiti dallo statuto interno che obbliga anche a rigidi parametri (su tutti non profit e impossibilità di redistribuzione degli utili tra i soci) a quelle che non sono facilmente individuabili per tipo e settore di operatività.
Le fondazioni sono un po' più "blindate", tuttavia il caso che riguarda i giornali rientra nel primo genere, pertanto nessun problema a verificarne i conti, cioè chi fa cosa e perché lo fa.

2] La percezione

Dai dati comunicati, il controllo non è impossibile: 34 giornali minori e 20 maggiori. 
Inoltre, se l’80% del contributo viene percepito dai più in vista, l’operazione di verifica è ancor più semplice.
Peraltro l'erogazione è stabilita dal dipartimento editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri sulla base dei documenti di idoneità presentati dalle cooperative aspiranti alla percezione del contributo, documenti di dominio pubblico.
Qual’è il punto, allora?
È che, né il controllo, né l’erogazione, né tantomeno l’abolizione del contributo, per decreto, dovrebbero essere di competenza governativa, ma, semmai, parlamentare a 360°.
Sempre se vogliamo ancora parlare di democrazia, la quale presuppone maggioranza ampia o di misura, ma sempre un’opposizione vigile, presente e battagliera.

3] Il risparmio effettivo
Il “costo allo Stato” – secondo Report – va dai 60 ai 180 milioni di euro su base annua. Benissimo. Da uno a tre euro pro capite/anno risparmiati con l’abolizione del contributo: l’anno prossimo tutti in settimana bianca a Cortina! 
Ma di che cosa stiamo parlando? Di spicci per il caffè al bar o di abolire la libertà di stampa e la pluralità di informazione?
A quando i gulag?
Senza contare che il main stream (quello che Grillo e i suoi dicono di voler combattere) del contributo alla piccola e media editoria se ne frega, anzi, se lo aboliscono, i giornaloni infarciti di pubblicità saranno ancora più liberi di fornire indisturbati la propria versione dei fatti, magari foraggiati da lobbies.
E pagherebbero sempre meno i propri giornalisti senza alternative di impiego.

4] La sega (non la Lega)

Chi ha la sega in mano è Vito Crimi, il Senatore del Movimento 5 Stelle nominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’editoria (dopo essere passato per il COPASIR).
Egli è determinato a portare a termine il suo progetto di sventramento dell’Ordine dei Giornalisti, in seno al quale è peraltro in corso una corposa, auspicabile e necessaria riforma.
La sua strategia sembra quella di togliere il supporto a giornali e giornalisti, affinché – abolendo il finanziamento – essi non abbiano più un organismo che li tuteli.
Ma, nel caso, non ci sarebbe soltanto L’OdG da abolire, questo Crimi lo ha dimenticato?
Oppure si tratta di una strategia che sarà attuata con tattiche diluite da pesci in barile?
Prima l’Ordine dei Giornalisti (ODG), poi la Federazione della Stampa (FNSI) e a seguire l’Associazione Stampa Romana (ASR), la Federazione Italiana Editori di Giornali (FIEG), l’Associazione Stampa Medica Italiana (ASMI), l’Unione stampa periodica italiana (USPI) e addirittura l’Associazione Nazionale della Stampa On Line (ANSO), visto che il blog di Grillo dovrà rimanere unica voce incontrastata?
Se non è pensiero unico questo…
Di più: si prospetta all'orizzonte un esercito di disoccupati “incarogniti” per i quali lo Stato dovrebbe farsi carico di una interminabile lista di casse integrazioni?
Dov'è il guadagno? Dov'è il risparmio? Questo sarebbe il vero costo sociale enorme per lo Stato.
L’unica cosa certa è che a perdere – oltre a migliaia di posti di lavoro – sarà la pluralità di informazione.
Un po’ come se si volessero abolire il Ministero degli Interni e quello della Difesa per poter togliere le armi alla Forze dell’Ordine e ai militari.
Tutto giusto?
A mio giudizio, no: il problema non è mai la pistola, ma l’uso che se ne fa.
Il tesserino da giornalista è oggettivamente paragonabile ad un’arma, ma di difesa pubblica, non di offesa.

5] La lima e la raspa
Urbano Cairo? Non li prende? Li ha presi in passato? Sì, no, ma che c'entra?

6] Pubblicità
I giornali che sopravvivono senza contributo ospitano corposi spazi pubblicitari, nessun giornale può sopravvivere con il solo prezzo di copertina: il “grazie ai lettori” nel testo di presentazione della puntata odierna di Report è una boutade scandalosa.
Ma, se non bastasse, come ho più volte sottolineato, la pubblicità sottrae spazio all’informazione e – cosa più grave – spesso la influenza negativamente: se pubblico l’inserzione di un'impresa, a pagamento, non potrò condurre un’inchiesta sulla regolarità del suo operare, con tanti saluti all’oggettività e al servizio pubblico.
La mia proposta, presentata oltre dieci anni fa, è quella di rendere gratuita la fruizione dei giornali che percepiscano il contributo e il divieto di avere spazi pubblicitari nei medesimi, esattamente come dovrebbe essere per la RAI: o il canone o la pubblicità, altrimenti, appunto, non si può parlare di servizio pubblico.
Chi non è d'accordo, è un furbetto: fa il giornale per incassare il contributo, non per informare.
Facile-facile, anche qui.

7] Il pianto del coccodrillo
A parte il fatto che se dovessi scrivere 5 articoli al giorno a 9 euro l’uno (non di meno, è già “schiavismo” così), intascherei 45 euro e non mi farebbero schifo: è sempre meglio che scavare con le mani in miniera. 
Ma sarebbe più corretto dire che è impossibile scrivere 5 pezzi di qualità al giorno: il primo sarà buono, il secondo mediocre e gli altri saranno un copia e incolla raffazzonato in fretta e furia: chi non è mai stato in una redazione non può comprendere a quali ritmi si lavori e con quale stress.
E poi, se dopo decenni di collaborazione, le retribuzioni non sono state adeguate neanche ai più bravi è perché soltanto nei casi citati (ovvero nei giornali che non percepiscono contributo) la gestione dei cordoni della borsa è in mano a privati danarosi che lucrano sulla pubblicità e della competenza giornalistica se ne fregano, con conseguente abbassamento di livello della qualità generale dell’informazione "ufficiale".
E pur vero che alcuni articoli non li pubblicherei neanche gratis, altro che 2, 4, 6, 9 euro, ma questo è un altro discorso.

Le associazioni di categoria e le federazioni preposte insorgano, quindi, e giustamente. Occorre fermare una guerra civile (soltanto nel senso di autolesionista, di "civile" c’è ben poco, per il resto), un tutti contro tutti, tra un fuggi-fuggi generale da e con barattoli di marmellata (oggettivamente?) rubati e sacrosanto diritto alla tutela della pluralità di informazione.

Concludiamo con un noto adagio: “Attento a quel che chiedi, potresti ottenerlo…”

domenica 28 ottobre 2018

Il più bullo del reame

Lo dico e lo scrivo da venti anni, anche se il video ne ha "soltanto" 4
https://www.youtube.com/watch?v=Zfj4hXHd40c
Tutto quello che era stato pianificato (e paventato da pochi lungimiranti sospettosi) si sta svolgendo esattamente come previsto.
Mi sembra di assistere ad una partita a biliardo dove uno dei giocatori pensa che non debba imbucare la palle proprie, ma quelle dell'avversario.
Purtroppo i social non aiutano mettendo in giro frasi tipo "governi non eletti" che portano drammaticamente fuoristrada, non hanno e non danno alcun appiglio legale o legislativo.
Scusate se ribatto sempre sul medesimo tasto, ma quel che manca sono giornali e giornalisti che facciano da filtro, da interprete, tra le parole quasi incomprensibili dei tecnici (in mala e buona fede, smascherando i primi e supportando i secondi) e le orecchie del popolo fu sovrano.
Non deve essere il tecnico ad esemplificare, ma qualcuno che con facili metafore faccia comprendere i complessi meccanismi.
Il primo passo verso il delirio e la confusione lo ha generato Grillo parlando di democrazia diretta e dei deputati come dipendenti, snaturandone la funzione e deresponsabilizzando la persona, paradossalmente.
Ma agli aspiranti grillini ciò parve cosa buona e giusta, facendo leva su invidia sociale giustizialista, più che su bisogno di giustizia.
Deputato – penso lo sappiate tutti – è un sinonimo di delegato, ovvero persona alla quale diamo carta bianca per partecipare alle sedute parlamentari: quando vota, lo fa per sé, per quelli che lo hanno eletto e anche per gli altri non rappresentati.
Nei governi tecnici non vi è nulla di illegale, sono previsti, ci sono sempre stati, questo non significa che sia corretto, ma è una forma di paracadute quando non si raggiungono i numeri di maggioranza previsti dalla costituzione repubblicana e – prima ancora – dall'ordinamento democratico che la disciplina nelle sue forme basilari.
Più la costituzione è complessa, lunga e arzigogolata, più è probabile che qualche furbetto ne faccia l'uso che più gli aggrada.
Berlusconi aveva ragione sulla riforma, anche se non condivido molte sue fantasie liber.
Se nel 2011 non avesse fatto un passo indietro, poiché non voleva assumersi la responsabilità di decisioni impopolari, ma necessarie (e anche perchè era sotto ricatto, nessun politico diventa tale se non è ricattabile, per inciso), probabilmente la sequela dei governi "non eletti" ce la saremmo risparmiata, ma tant'è.
Il governo attuale è formato da gente che non vedeva l'ora di governare, ma non ha la più pallida idea di come si ottengano i risultati auspicati.
Anche le istanze più corrette vengono portate in sede sciaguratamente, in politica la forma è anch'essa sostanza.
Questo è il più grande problema: se arriva un bullo più bullo dei bulli che ci vessano, non aspettiamoci soluzioni, ma ulteriori grane, specialmente se è alleato con una congrega di segaioli che si credono secchioni.

Editoria


Il contributo all'editoria serve per far acquistare un giornale – in edicola oppure online – che spesso non ha pubblicità o altre forme di guadagno, ad un prezzo sostenibile da tutti.
Questi giornali sono minori, fatte salve due o tre eccezioni più o meno discutibili (ma è la pluralità di informazione).
In questi spazi minori vengono pubblicati commenti ai fatti o fatti nudi e crudi, spesso relegati a cronache locali o anche di ambito nazionale, ma puntualmente ignorati o distorti dalla cosiddetta "grande informazione" (mainstream).
Quella che del contributo all'editoria SE NE FREGA, poiché sono Testate in mano a privati danarosi e/o a lobbies di riferimento che le foraggiano per far dire quel che vogliono, e che addirittura auspicano la soppressione del contributo alle Testate minori, poiché LORO rimarrebbero uniche voci incontrastate: verso il pensiero unico, QUINDI.
E ora facciamo due conti.
Se non ci fosse il contributo, un giornale minore non costerebbe un euro al giorno, ma 5: le redazioni piccole costano mille euro al giorno di media, le spese sono ingenti, hanno meno sgravi fiscali di quelle grandi e anche i loro giornalisti mangiano ogni tanto, oppure pensavate di no?).
Chi volesse essere informato sugli sviluppi delle questioni dovrebbe sostenere, quindi, un costo cinque volte superiore.
Chi vuole il giornale se lo paghi?
Come dice Grillo?
Un'enorme stupidaggine.
Innanzitutto perchè un giornale non è un'azienda privata (alcuni sì, ma – come detto – del contributo se ne fregano), ma un servizio pubblico; e poi perché sarebbero pochissimi quelli con la possibilità di spendere 5 euro al giorno e i piccoli giornali chiuderebbero comunque.
Ma quanto costa alla comunità tutto ciò?
Un caffè pro capite all'anno.
Ovvero spendereste 300 euro l'anno per acquistarlo di tasca vosta, ma soltanto un euro in più per non spenderne 1500, se volete informarvi.
Quindi 301 euro anziché 1500 per chi acquistava il giornale, moltiplicato per tutti i giornali che si volevano comprare.
C'è internet, dite?
Se avete le capacità di discernimento su quanto leggete e chi lo dice, va benissimo, altrimenti preparatevi alla "posizione per antonomasia".
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Ma per far sì che l'informazione fosse totalmente gratuita, anni fa proposi un'idea per la riforma della legge sul contributo all'editoria (che poi, in realtà, ad oggi, è un rimborso al 50% delle spese sostenute).
La proposta era così articolata.
- Distribuzione gratuita dei giornali che lo percepiscono, ovvero un servizio pubblico gratuito, ma da non confondere con il "Freepress" privato e zeppo di pubblicità dichiarata o più o meno subliminale (redazionali-marchetta).
- Togliere il dato di distribuzione come parametro per calcolare l'ammontare del rimborso, ma considerare le spese vive al 100%: stipendi, utenze, servizi, tiratura (carta e stampa) e distribuzione effettiva e verificata nei punti concordati.
Ciò avrebbe portato molteplici vantaggi.
- Le cooperative non avrebbero più dovuto "inventare" costi per gonfiare il bilancio, seppur verificato dai revisori dei conti, per far fronte alle spese (o ad altro, ma per quello c'è la GdF).
- Gratuità dell'informazione svincolata da gruppi di potere.
- Soltanto informazione e commenti, niente pubblicità ingombrante e condizionante.
- Maggior possibilità di controllo sui percettori.
- Immediata sospensione in caso di malversazione (le cooperative sono no profit, non ci sono dividendi per i soci lavoratori.)
- Facilità di individuazione dei malintenzionati: chi non è d'accordo, fa il giornale per fare cassa, non per informare.
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Tutto ciò premesso, la malafede di Grillo emerge come il pericoloso iceberg che affonderà il transatlantico Italia: l'onestà deve convenire a tutti, non andare di moda per qualcuno.

Una rilettura di Sciascia
Uomini, mezz’uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà


Dopo il post sul pensiero e l’azione (volontà, talento, possibilità), dove in un passaggio citavo le categorie nel titolo di quello odierno, ho pensato di parlarne usando delle metafore che – a mio giudizio – si prestano a descriverle.
Ora, quindi, dopo aver esaminato le caratteristiche degli attori in scena – chi fa (o non fa) qualcosa tra comparse, personaggi, interpreti e protagonisti – passiamo ad analizzare le peculiarità intrinseche delle azioni, ovvero se esse abbiano accezione positiva o negativa in funzione di chi le auspica o le deplora è – soprattutto – perché esse debbano essere compiute o boicottate.

Supponiamo che un’operazione debba essere realizzata.
Essa può avere, appunto, un fine positivo (ad es.: salvare una vita umana) o negativo (ad es.: compiere un attentato terroristico).
A prescindere da quale sia la sua finalità, si dirà che – se portata a compimento – l’azione avrà avuto “buon esito”, svuotando il significato di “buono” dell’accezione positiva, tipica invece del buon (lieto) fine, inteso sia come scopo positivo prefissato, che "finalmente" ottenuto.

Pertanto, se medici, chirurghi, vigili del fuoco, forze dell’ordine in genere, siano riusciti nell’intento di salvare una vita in pericolo oppure se sicari esecutori, mandanti e criminali in genere abbiano conseguito l’obiettivo del loro fare, dal loro diverso e opposto punto di vista, parleranno comunque di “buon esito” in caso di realizzazione del risultato.

Per comprendere meglio scomodiamo una serie di operazioni algebriche dando per assunto definito – è pur sempre un’analisi cinica, ma non è questo il luogo di dimostrazioni matematiche dettagliate – che [(+) X (+)] = (+), [(-) X (-)] = (+) e [(+) X (-)] = (-).

Dove, però, distinguendo:
- il primo fattore moltiplicatore ha “VALORE RELATIVO” all’azione – positiva o negativa – da compiere;
- il secondo ha “VALORE RELATIVO” al successo o meno dell’operazione in questione (“buon esito”, ma non necessariamente lieto fine);
- il prodotto (risultato) ha “valore assoluto” positivo o negativo, ovvero se si è verificato o meno ciò che è giusto per convenzione benigna: “il bene che trionfa sul male”*.

*O almeno così dovrebbe essere, ma – come sappiamo – quasi mai lo è, visto che il bene comune assoluto è impossibile da conseguire: nella quasi totalità dei casi si ricava maggior profitto nel danneggiare gli altri che nel fornire loro aiuto.
Già non è semplice non fare al "prossimo", figuriamoci il fare.
Insomma, un favore si paga, un dispetto è gratis, magari soltanto per il gusto di affossare qualcun altro, anziché elevare se stessi: è meno impegnativo e fornisce l’illusione al consenso che caratterizza di solito il comportamento del politicante, il quale adotta il più semplice “lui è peggiore di me”, anziché il “io sono migliore di lui”.
Come già detto altrove, nel primo caso basterà boicottare l’operato dell’avversario per fare bella figura, nel secondo occorre “produrre” prove delle proprie capacità; se queste mancano, la prima opzione è anche l’unica disponibile e attuabile.
Per questo motivo si può affermare che con un avversario intelligente si discute, con un nemico malintenzionato si lotta, ma contro un cretino siamo indifesi: egli non è prevedibile poiché, anziché agire, reagisce a casaccio alle sollecitazioni.


Vediamo in pratica

1) [Si tenta di salvare una vita (+ relativo)] X [ci si riesce (+ relativo)] = VITA (+ assoluto).
2) [Si tenta di salvare una vita (+ relativo)] X [non ci si riesce (- relativo)] = MORTE (- assoluto).
3) [Si pianifica un attentato (- relativo)] X [non ci si riesce (- relativo)] = VITA (+ assoluto).
4) [Si pianifica un attentato (- relativo)] X [ci si riesce (+ relativo)] = MORTE (- assoluto).

Ai “fattori” possiamo sostituire ogni “necessità” (uscire dall'euro, ad esempio), azione pianificata e relativo risultato.

Le conseguenze del fare

Elaborazione grafica di un fotogramma da "Stati di allucinazione".

Innanzitutto, consideriamo che ognuno di noi, nello svolgere un compito, ha un COSTO, un VALORE e un PREZZO.
Un rating personale, potremmo azzardare.

Il COSTO oggettivo è relativo alla “professionalità” effettiva ed ha connotazione assoluta in casi confermati da preparazione, esperienza, etc. che stabiliranno il valore del "professionista" o "mestierante";
il VALORE, quindi, o si ha o non si ha (come il coraggio manzoniano), ma potrebbe essere ingiustamente attribuito con dati falsati e spacciati per autentici;
il PREZZO dipende dalla situazione economica in cui si trovano gli attori protagonisti e se ne stabilisce la rispettiva categoria sulla base di costo e valore.
Insomma: si mercanteggia, ma entro i limiti stabiliti, oltre i quali è opportuno non andare (in Borsa si parlerebbe di eccesso di ribasso o di rialzo), pena lo stallo delle trattative che non è utile ad alcuno (cui prodest?).

Analizziamo più approfonditamente

Se si è professionisti di “valore” riconosciuto, il prezzo sarà congruo alla prestazione (NB: nel mondo perfetto);
se si è “senza arte, né parte” e senza “valore” (oppure confinati arbitrariamente nell'ambito), invece, il prezzo sarà definito da parametri probabilmente non corretti e sarà caratterizzato da un’elevata entità della promessa fatta, ma da un compenso scarso, se non nullo*.

* Ribasso e rialzo.

In entrambi i casi, comunque, dipende dal “potere contrattuale” contrapposto, composto dalla domanda e dall’offerta.
Presupponendo (a ragione) che in città VALGA più un chilo d’oro e nel deserto VALGA più un litro d’acqua, i COSTI passano in second’ordine e quindi il PREZZO è stabilito su base di utilità (oro) o necessità di sopravvivenza (acqua).
In altre parole, in città (city) si mercanteggia e si tratta; nel deserto, no: lì è soltanto chi vende (offerta) a fare il prezzo, e chi compra (domanda, ma sarebbe più opportuno dire supplica) a dover scegliere se vivere o morire.


Conclusione


Le categorie inventate da Leonardo Sciascia – drammaticamente aderenti alla realtà ed ancora attualissime – popolano l'Italia e, purtroppo, si sono alternate al governo, anche in quello attuale.
Siamo passati da una gestione prona alla UE ad una ribellione scriteriata, mentre sarebbe stata ben più opportuna una strategia e una tattica più prudente, più intelligente e anche più furba: a brigante, brigante e mezzo.

Così come è stata impostata la politica economica europea, portare avanti politiche sovraniste senza saperle maneggiare con cura significa spostarsi dalla città al deserto, all’isolamento economico che potrebbe portarci a dover accettare condizioni capestro addirittura peggiori di quelle attuali.
Non dobbiamo subire tutti i dictat europei, insomma, ma neanche cercare di sottrarvisi con teorie strampalate e gesti inconsulti.

giovedì 25 ottobre 2018

I totalitarismi sono tutti uguali?
Sì e No

Matteo Salvini come Benito Mussolini.
La vignetta di Mannelli pubblicata sulla prima pagina del Fatto quotidiano.

Tra entusiasmi nazionalisti/sovranisti e incondizionata fiducia nell’Unione Europea prendiamo una prudente distanza da entrambe le visioni, ma cerchiamo di comprenderne i motivi che le animano.

Da una parte abbiamo la rappresentanza di governo e relativi sostenitori non proprio amalgamati: Salvini e la Lega rappresentano la vecchia politica, mentre Di Maio e i 5 Stelle sono il nuovo "nuovo che avanza", riciclando intuizioni pubblicitarie berlusconiane che vanno per i trenta anni.

Per evitare commistioni con il “vecchio che è avanzato” è stato coniato lo slogan “Governo del cambiamento”.

Questo “cambia Mento” entusiasma i grillini ed è accettato dalla Lega per gioco di ruolo, ma al tempo stesso evoca un altro mento, quello del mascellone italico fascista.

Infatti, sia Salvini che Di Maio, ma su posizioni differenti, usano – più o meno bene – l’intransigente adagio, ma non troppo del “chi non è con me, è contro di me” cui seguono ineluttabilmente “Nel fuoco mi tempro” e lo sconsiderato – a mio giudizio – “Molti nemici, molto onore”.

Dall’altra, in questo, quindi, hanno ragione le opposizioni ad individuare una deriva che ricorda il modus operandi del dictator, ma la misura cautelativa è sterile sul piano politico, poiché vi si contrappone un contro-populismo basato più sulla critica distruttiva che costruttiva, le ultime dichiarazioni di Berlusconi e di Renzi lo confermano.

Anche sul piano intellettuale – il cui pensiero è sterile di per sé* se non è poi seguito da azioni politiche – l’individuazione del nemico utilizzando definizioni datate non fa altro che dividere ulteriormente.

*Rimando al mio post precedente su pensiero e azione.

Vediamo insieme.

Neologismi e veterologismi
Nella comunicazione è fondamentale utilizzare i termini giusti che siano appunto correttamente evocativi; parlare di fascismo, nazismo, leninismo o stalinismo – soltanto per citare i più abusati alla bisogna – in contesti che ne richiamano soltanto i profili generali (o addirittura ombre proiettate) può essere controproducente.
Innanzitutto perché chiama a raccolta e a far quadrato attorno all’esponente che – astutamente – né conferma, né smentisce le posizioni (Grillo è un maestro in ciò, Salvini un po’ meno, Di Maio quasi per nulla, autodenunciandosi come un cane messo a catena corta).
E poi perché fornisce un’immagine da dinosauro estinto a chi la propina: non è, quindi, una strategia vincente.

Si dirà che il dovere dell’intellettuale non è essere giovanilistico.
Giusto, tuttavia è bene considerare che i delusi da tutta la politica sono perlopiù distribuiti nella media e terza età, ovvero l’astensione alle urne è maggiormente diffusa tra i più anziani e non c’è più la macchina elettorale del PCI e della DC, che ben sapevano veicolare il voto di questi.
Nella fascia 20-40 anni, invece, c’è lo zoccolo duro del “consenso a prescindere” al M5S e buona parte di quello alla Lega, vuoi per convinzione genuina, vuoi per convenienza relativa, vuoi per identificazione con il leader.

La trasformazione del partito di Salvini (si può oramai definire così) – da secessionista che voleva affondare il resto d’Italia, dalla “padania” in giù, a maggiore espressione nazionalista – è stata un’operazione da manuale del consenso politico, checché se ne dica.
Così come lo è stata l’escalation di Grillo, da imbonitore divertente a capopopolo credibile per buona parte dei delusi non astensionisti, i quali, però, non hanno compreso che il voto non deve essere mai di protesta, poiché – per assunto – ripone maggiori aspettative di quelle auspicabili in personaggi dallo scarso valore politico, ma enorme sul piano comunicativo: la Casaleggio e associati è una macchina da guerra che lavora molto nell’ombra, spingendo volta per volta “frontmen” vincenti sul palco, non scomode teste pensanti, era già passata per Lega e pre IDV, che più che teste pensanti contava teste di pietra.
Tutto con alte possibilità di delusione.

Insomma, la sacralità del voto auspicherebbe l’astensione in caso di non gradimento, esattamente come si fa quando si entra in un negozio, non si trova quel che serve, si vuole uscire a mani vuote, ma il commesso ci trattiene perché ci vuole convincere a comprare un surrogato del prodotto che cerchiamo.
Se ci lasciamo sedurre, la delusione è assicurata, non tanto per la qualità in sé del prodotto sostitutivo acquistato, ma quanto perché, nella nostra mente, ciò che cercavamo era ed è migliore.
Un libero arbitrio recondito alloggia anche nei cervelli meno dotati, anzi, è ancora più forte: di solito chi pensa di sapere è più pericoloso e meno prudente di chi sa.
In sintesi, l’espressione di preferenza è più un diritto personale che un “dovere civico” comunitario*.

*Qui non si predica l’astensione, è soltanto un invito al ragionamento.

La scelta politica non è paragonabile ad acquistare un prodotto?
Vero, è molto più importante: è opportuno scegliere chi ci consentirà o meno di continuare a poterlo acquistare senza dover ricorrere alle tessere annonarie.
Non si tratta di essere moderati, ma neanche di essere sbilanciati a casaccio.

E veniamo finalmente ai totalitarismi
Tutto ciò premesso, ogni volta che l’uomo forte – il dictator – ha fatto capolino, c’erano state sempre “gestioni precedenti” che hanno scontentato il popolo, o peggio.
Il periodo che stiamo vivendo in Italia non è idilliaco, ma è sicuramente meno grave per numero totale di feriti e morti per guerre e fame.
Questo sul dato comune, però, non sul singolo caso.
Non faremo l’errore di prendere la parte per il tutto, ma neanche quello di ignorare situazioni drammatiche: chi non ha soldi per mangiare non è preoccupato dello spread, di quello si preoccupa chi ha ancora qualcosa (o molto) da perdere.
È chi dice "italiani fancazzisti" ad interpretare colui che prende la "parte per il tutto"; la crisi non esiste, i ristoranti sono pieni, etc, etc., per intenderci.

Quale dictator, dunque
Di Maio non ha né il fisico del ruolo, né l’atteggiamento (quando ci prova è ridicolo), né l’eloquenza, né, tanto meno, spalleggiatori interni: il M5S è un’arena piena di belve feroci scalpitanti, dai meetup alle assemblee istituzionali, più che negli altri partiti dove la figura del leader del momento è ben più definita e rispettata, anche se non eterna, come lo sono state (più nel male che nel bene) le figure storiche citate.
Salvini ha soltanto l’aspetto del dictator, ma null’altro: è un comiziante per tutte le sedi, idonee o affatto, fa lo spiritoso senza far ridere, se non i suoi per convenienza (come Grillo o Berlusconi) e spesso è volgare e triviale (idem, con aggiunta di Bossi).
È un Cerbero partorito dall’unione dei suoi modelli e prende in prestito da altri quel che essi non avevano, ma, nonostante questo caleidoscopio caratteriale, risulta monotematico, affatto poliedrico, addirittura noioso.
Non disdegna interviste-trappola (come invece fa l’astuto e altezzoso, ma non saggio Grillo) nelle quali ha modo di riproporre il celodurismo leghista, d’altronde da lì proviene.

La padella e la brace
Il rischio è alto, ma è ancora contenibile.
Già altre manifestazioni populiste in passato sono naufragate per inconsistenza delle tematiche proposte o imposte, ma il prezzo pagato è stato comunque sostanzioso, come ho già detto altrove: il popolo elegge, il popolo distrugge. Insomma, chi di spada ferisce, etc.
Tutto condivisibile?
Non saprei, agli esperti la parola su come evitare che la deriva populista ci faccia irrimediabilmente allontanare dall’approdo.
Se vogliamo risparmiarci il nuovo dictator sarà sufficiente fare un esame di coscienza su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, non siamo ancora alla Repubblica di Weimar, nel Terrore francese o nel preambolo bolscevico, ma sappiate che se ci arriviamo – e la strada è quella – non si torna indietro: vincerà chi ha più armi e munizioni, non soltanto a mo' di metafora.
A nulla varranno gli appelli alla diplomazia.

venerdì 19 ottobre 2018

Il pensiero e l'azione
Volontà, talento, possibilità





Si è già scritto in proposito, lo so.
Non cito, perché da Mazzini in poi (ma anche prima) la lista è lunghissima ed abbraccia (o aborrisce) numerose ideologie, religioni "laicizzate" e surrogati vari.
Spesso il pensiero e l'azione vengono erroneamente considerati "universali", ovvero, chi pensa una cosa, la farà sicuramente, qualora ne abbia – sintetizzando, ovviamente – volontà, talento e possibilità.
Questo impianto, però, genera subito un equivoco che le tre peculiarità elencate – al pari indispensabili e che analizzeremo più avanti – non riescono ad evitare, o meglio: c'è bisogno che tutte e tre siano presenti e soddisfatte (conditio sine qua non) affinché si possa e si voglia procedere correttamente.

Iniziamo con una metafora plausibile e ricorrente, ma non limitante.
Poniamo a confronto due categorie: l'intellettuale e l'agonista (allenatore e giocatore, se preferite, o pedine e pedoni negli scacchi).

Assunto
Il pensiero dell'intellettuale sarà più potente di quello dell'agonista, mentre la sua "spada-penna", sarà più debole, se poi non verrà seguita dai fatti che qualcun altro dovrà "interpretare" e/o attuare.
Per restare in metafora calcistica, un allenatore bravo senza una squadra forte può vincere poco o nulla.
Pertanto, in un romanzo o in un film – come d'altronde nella vita – si palesano, a salire: figuranti (comparse), personaggi, interpreti (appunto) e protagonisti (e antagonisti).

(Da non confondersi con «uomini, mezzi uomini, etc.», questo è un altro discorso che vedremo in un altro post.)

I figuranti o comparse
Si tratta, appunto, di figure anonime, che fanno soltanto da sfondo, ma, senza di esse – come spettatori o come comparse – alla scena mancherebbe qualcosa di fondamentale: la sensazione dell'opinione pubblica, del consenso o del dissenso; insomma, della "democrazia rassicurante", spesso fallace.
Sono quelli che salutano (non soltanto anziani, donne e bambini) i combattenti in partenza o esorcizzano il momento tirando ortaggi e uova marce a colui che è alla gogna o viene trasferito al patibolo sperando di non finirci (oppure tiravano monetine a Craxi o sputavano sul cadavere di Mussolini).
In un ambito militare rappresentano la truppa.
Sono gli orchi o i villici nel Signore degli Anelli, ma stesse categorie si possono trovare in tutte le saghe, come in Guerre stellari, ad esempio.

I personaggi

A differenza delle comparse, parlano e interagiscono, ma conferiscono anche ipotesi di dignità ai figuranti poiché essi – con un colpo di scena – potrebbero essere promossi da un momento all'altro a personaggi; però non avranno mai un ruolo decisivo o definito, per questo entrambi – sia figuranti che personaggi – non possono e non devono diventare interpreti.
Anche loro salutano e tirano ortaggi e uova marce, ma in prima fila, si fanno riconoscere, ce ne ricordiamo.
Sono i sottufficiali in ambito militare.
Sono genericamente gli elfi, i nani e gli hobbit o Shelob, nella fantasia tolkeniana.

Gli interpreti
Hanno un ruolo decisivo e/o definito, si muovono con sicurezza sulla scena oppure sono caratterizzati da eccessiva paura o timidezza; senza di loro la storia non potrebbe svolgersi, di solito muoiono (o spariscono) eroicamente o stupidamente, dipende dal ruolo.
Di più, la loro "scomparsa" può essere da sprone, essere la molla decisiva per la svolta della storia.
Possono essere, infatti, addirittura co-protagonisti o co-antagonisti.
Sono quindi coloro che vanno "a la pugna"; oppure finiscono alla gogna o al patibolo.
Sono ufficiali superiori.
Sono Boromir, Legolas e Gandalf, Vermilinguo e Gollum nel capolavoro di Tolkien.

Tutti componenti delle tre categorie citate finora "fanno" (o non fanno) qualcosa, mentre quelli che impersonificano la successiva – la più importante – non "fanno" soltanto qualcosa, ma "sono" anche qualcuno.
Vediamo.

I protagonisti
(o, più correttamente, proto-agonisti) e antagonisti.
Sono coloro che agiscono e reagiscono spalleggiati (o osteggiati) da personaggi e interpreti, ma questi non sono sufficienti a definirne importanza o coraggio, la grandezza, insomma, l'eroicità immortale.
La "figura" fondamentale in questo ruolo è l'ant-agonista, spesso negativa nei romanzi o lungometraggi "eroici", ma non necessariamente: in un film sulla mafia, visto dall'angolazione dei "cattivi", un capo mandamento è il protagonista negativo, mentre un magistrato è l'antagonista positivo, insomma, non si tratta di valori assoluti.
Sono i comandanti che si pongono alla teste delle truppe "buone", quelli dell'armiamoci e partite in quelle cattive.
Sono Frodo e Aragorn, Sauron (figurato) e Saruman (convertito), sempre nella saga citata.

Completata la carrellata di tipo "cinematografico-storico-militare", torniamo a chi fa che cosa e perché lo fa.
L'azione, dunque.
Da chi è pensata?
Da chi la pianifica, ma poi rimane alla propria scrivania?
Da chi è realizzata?
Da chi la pianifica e da quella scrivania poi si alza?
Oppure è una deduzione "plurale" che trova un "interprete" di comodo con smanie di "protagonismo"?
Come si inseriscono Berlusconi, Grillo, Casaleggio, Di Maio, Salvini e gli altri in questo quadro?

Difficile dirlo, ma in proposito concordiamo con Machiavelli il quale individua i "profeti armati" e quelli disarmati.
I primi avrebbero speranze di fare qualcosa e riuscire nell'impresa, perché sono ambiziosi, impegnati politicamente, schierati ideologicamente e – perché no – pronti ad imbracciare le armi, se necessario; mentre i secondi sono destinati comunque al fallimento, poiché il loro pensiero – seppur giusto – è sterile e non trova seguito, poiché mancante del traino, ma dispone soltanto di una spinta iniziale insufficiente.
I primi sono protagonisti* o antagonisti*, i secondi sono al più interpreti (ma più spesso sono personaggi) dei quali i primi si servono per portare a termine – o sabotare – l'azione.

*Gabriele D’Annunzio, André Malraux e Lord Byron – probabilmente "mitizzati" – rimangono tra i rari casi (relativamente recenti) nei quali sia il pensiero che l'azione sono stati frutto della mente e del braccio appartenenti a medesimo corpo.
NB. Bisogna distinguere le azioni "eroiche" da quelle di pura propaganda, spesso attuate con volontà e possibilità, ma senza talento, come vedremo in seguito.


Volontà, talento, possibilità
Inquadrati gli attori, vediamone le capacità.
Volontà e talento sono presenti in maniera inversamente proporzionale nelle figure estreme: i membri della "democrazia fallace" hanno molta volontà (in teoria), ma poco talento; mentre i protagonisti hanno probabilmente almeno un forte talento, ma scarsa volontà*.

*È più semplice raggiungere la vetta che rimanerci, una volta giunti, la "prudenza" è d'obbligo: ci si fa più male se si cade dal decimo piano che dal primo, ma si considera sempre che – in caso di alluvione – in alto si resta vivi e asciutti, però occorre anche evitare incendi nei quali periscono maggiormente gli abitanti dei piani alti.

La possibilità, invece, si può trovare indistintamente, anche se è più interconnessa* con il talento che con la volontà.

*In proposito, è bene ricordare che il TALENTO è una misura di peso, poi trasformata in valuta (valore) sulla base di quanto, appunto, "pesava" la singola moneta coniata in valore intrinseco ("a peso d'oro", ad esempio).
Successivamente, al TALENTO, è stato attribuito anche un significato etimologico di "dono del Signore" dalle molteplici accezioni: dalla concessione dell'agio del signore (detto signoraggio) a quella religiosa del "dono di natura", inteso come caratteristica peculiare fisica o possesso di capacità particolari, fino ai poteri "medianici" (spesso illusionistici, però).



Conclusione
Possedere molteplici talenti senza volontà (ved. parabola dei…) equivale ad avere volontà senza talenti, in entrambi i casi la "possibilità" è insufficiente.
E quindi a nulla vale averne in quantità: "Con un talento in più si è spesso più insicuri che con uno in meno: come il tavolo sta meglio su tre che su quattro gambe", come sembra abbia affermato Nietzsche, data la forma, ovviamente: un tavolo tondo sta bene su tre gambe, uno quadrato o rettangolare, no.
Il governo attuale poggia su tre gambe (Conte, Salvini, Di Maio), il che, se fosse una "tavola rotonda" (a proposito di saghe) evidenzierebbe una certa stabilità, ma siccome denuncia un talento mancante, si basa su un equilibrio precario.

sabato 6 ottobre 2018

Suicidio politico
La resa dei conti o i conti della resa?

Preambolo
 
Ho letto molto, ma ancora non abbastanza, sul suicidio spontaneo o indotto.
Tralasciando le tecniche utilizzate e i "suicidati" (si allargherebbe troppo il discorso), mi appoggio per semplicità nuovamente a due categorie che, a giudizio di molti, sono oramai desuete.
Se a livello cognitivo razionale ciò è probabilmente vero, non lo è per quanto riguarda l'inconscio (o subconscio) che si appella a un bipolarismo e a una dualità sia "egoica" che plurale, ma non pluralista, se non per interessi di bottega condivisa.
Cioè non stiamo insieme se la pensiamo allo stesso modo, ma se la pensiamo allo stesso modo potremmo essere uniti, salvo clausole in calce.

Potreste obiettare che anche questo scritto ha carattere dualistico, ma è necessario, in sede di analisi, porre a confronto.

I due* principali motivi di suicidio si suddividono in negazione della condivisione della propria vita (voi non mi meritate) e negazione dell'accettazione comunitaria (io non vi merito).
Ciò rinvia direttamente al suicidio pubblico "eroico" (o esplicitamente automartirizzante, più propriamente) del frustrato più o meno obiettivo che vuole dare "alto esempio" – pur avendo coscienza della velleità del gesto, tragicamente nobilitato nel nome di un convinto altruismo – oppure a quello privato con rinvenimento del cadavere, spesso corredato di bigliettino con saluti, scuse e ringraziamenti più o meno autentici.

* Probabilmente nulla di "eroico" in entrambi i casi, ma appunto si tratta – da una parte – di un martirio esplicito che chiede onori alla e dalla storia e – dall'altra – uno implicito, che della storia se ne frega.
Per distinguerli bisognerà capire (e non è difficile) se l'epitaffio sulla lapide lo hanno scritto loro prima di uccidersi, oppure se lo hanno scritto i loro cari dopo la sepoltura sulla base del bigliettino rinvenuto.

Si tratta di soggetti che hanno una visione coerente con l'immaginario di destra (se può esistere una "coerenza immaginaria"), oppure si tratta di un vittimismo più prossimo alla visione di sinistra (del proletario oppresso), ma tendente all'apolitico deluso.
Ovvero la sottile differenza tra il non aver paura di morire (fascismo eroico immaginario) e l'aver paura di vivere (tipico del sottoproletariato vessato o della perdita di status privilegiato non ideologizzata).
Quindi, i primi hanno motivazioni ideologiche altruistiche (o spacciate per tali) mentre i secondi hanno motivazioni meramente economiche egoistiche, ma autentiche.

L'altruista è un filantropo illuso e si aspetta dagli altri attenzioni spontanee, così come egli fa nell'ambito del possibile, d'altronde alcune cose non costano nulla, se non qualche minuto del proprio tempo.

L'egoista è un misantropo disilluso (spesso un ex filantropo deluso) che ha imparato a chiedere, ad esigere e, soprattutto, ad ottenere.

Quando ci si accorge che la seconda opzione è ben più remunerativa della prima, il processo è irreversibile, ma è a termine, poiché, chi chiede, otterrà fin quando ci sarà qualcun altro disposto a dare.
Pertanto il filantropo si "suiciderà" perchè non può più dare, il misantropo lo farà perché non può più chiedere*.

* Scrive in proposito Pierre Drieu La Rochelle, mentendo a se stesso, talentuoso suicida: 
«Quelli che restano, quelli che non si uccidono, sono coloro che hanno talento, che credono nel loro talento.»
a dimostrazione che c'è comunque un termine a tutto.

L'unico vantaggio che ha il suicida, a prescindere dalla tipologia, è che, rispetto ai "comuni mortali" (si distingue già per questo), decide – e quindi conosce esattamente – il momento del trapasso (forse incidendo anche sul destino degli altri) e compie un atto supremo che accomuna coraggio* e vigliaccheria come nulla altro può fare.

* Ben diverso dal morire in eroica battaglia con disparità di forze in campo.
Anche qui, però, ancora destra e sinistra, hanno approccio opposto: l'una mitizza chiedendo rispetto e onore, l'altra piange chiedendo commiserazione, probabilmente entrambe speculano quando usano i morti per un fine che non sia una semplice commemorazione.
Ma anche di questo parlerò in un capitolo di un libro di prossima pubblicazione.


Comunque ogni giorno nasce un furbo e un ingenuo, quindi il processo ha sviluppo più che millenario, fatti salvi accadimenti di portata mondiale che portano a decimare le popolazioni e ad accelerare i tempi.

Esaurito il lungo preambolo, veniamo al dunque
 
A proposito di furbi e di ingenui, ascoltando un comizio di Salvini e uno di Di Maio – non contestuali – ho ravvisato alcune caratteristiche interessanti dei due personaggi.
Partiamo da quelle comuni.
Sono entrambi abbastanza giovani, dispongono di energie più o meno riflesse generate dal consenso e credono nelle favole populiste.

Ed ora le differenze.

Salvini ha qualche anno in più, sia anagrafico, ma soprattutto di esperienza politica: si serve del populismo spontaneo, il partito è lui e lo sa, attira a bordo una massa talmente varia che è praticamente impossibile da incasellare, dai nordisti ai sudisti, dai neofascisti ai veterocomunisti delusi (ovviamente parlo di base, non di vertici).
Un mix di berlusconismo e "mussolinismo" (con cautela, però, il fascismo è altro).

Di Maio, invece, ha una esperienza politica quasi nulla, ma che – secondo i suoi elettori – è più un pregio che un difetto, anzi, è l'unico motivo per il quale siede lì: ha quindi bisogno del populismo veicolato da Grillo, il Movimento non è lui, lo sospetta, ma preferisce non pensarci.

Ora sono sugli altari e sono strafottenti, ma con sfumature diverse:

Salvini interpreta (non è) il bullo ripetente che si è finalmente diplomato, ma non disdegna un linguaggio triviale anche in sedi istituzionali, nelle quali sarebbe auspicabile maggior contegno.
Ricorda Adriano Celentano quando interpretò Rugantino: la parodia di un nordico che vuole piacere al centro-sud per far dimenticare le origini secessioniste della Lega.

Di Maio interpreta (non è) l'assistente universitario quando il titolare della Cattedra è in settimana bianca: vuol far credere che sia lui a decidere, sia per i suoi, sia come influenza sullo scomodo alleato di governo. Ci crede lui, pochi fedellissimi e ancora troppi che hanno votato 5 Stelle.

Visti gli altari, passiamo alle polveri: il 5 maggio 2019 potrebbe essere più che un anniversario francese.
Nel caso di perdita verticale di consenso, di "suicidio politico", che cosa farebbero i due "eroi/martiri"?
Che cosa farebbero i loro fedelissimi?
Dipenderà da quanto hanno dato e da quanto hanno ricevuto.
Filantropia e misantropia non possono essere mascherate per sempre.
Pierre Drieu La Rochelle sarebbe d'accordo.

Reddito di Cittadinanza

Le economie/finanze di uno Stato, di un'azienda privata, di una statale, di un condominio, di una famiglia rispondono a parametri assai diversi per essere correttamente determinate.
Il fallimento non è previsto, se i parametri sono corretti (o supportati).
Quando accade può dispiacere, può essere avvenimento grave o drammatico o addirittura tragico.
Ma non è la bancarotta fraudolenta ad essere un reato, lo è che sia data la possibilità di attuarla e, soprattutto, di farla franca.
La presunzione di evasione fiscale è, invece, l'altra faccia della medaglia, ovvero si consente ai furbetti di "provarci" e si annientano come fossero criminali i contribuenti che hanno subita una flessione negativa del fatturato per motivi peraltro non difficili da individuare, in due parole: pressione fiscale.
Che si spacci il reddito di cittadinanza per la panacea alla povertà è doppiamente disonesto: per presunta attuabilità e – nel caso fosse attuabile – per manifesta offesa alla dignità e nei confronti di chi da decenni paga tasse esorbitanti sul proprio fatturato.
Ribadisco, se l'azienda chiude, il gettito è pari a 0%, fenomeni.
Inoltre occorre considerare da dove provenga il dato maggiore sull'evasione, probabilmente non da scontrini non battuti, ma da plusvalenze (speculazioni) che sfuggono (?!?) ai controlli, dal gioco d'azzardo legalizzato, dalle manovrine a "mercati chiusi" e dai trucchetti relativi.
Pensare che il Mercato sia un moloch al quale sacrificare aziende e persone è sbagliato sia dall'angolazione complottista, sia da quella possibilista con posizione ineluttabile.
È una mia opinione, ovviamente, gli economisti non saranno d'accordo, ma d'altronde non possono segare il ramo sul quale stanno comodamente seduti.
Mi piace concludere con la frase di Luigi Einaudi che ogni economista dovrebbe tenere incisa nel marmo appesa ad una parete del proprio studio professionale:
“La frode fiscale non potrà essere davvero considerata alla stregua degli altri reati finché le leggi tributarie rimarranno vessatorie e pesantissime e finché le sottili arti della frode rimarranno l’unica arma di difesa del contribuente contro le esorbitanze del fisco”.
Se è vero come è vero che per visione umana la schiavitù deve essere eliminata, non capisco perché si percorrano strade che perseguono l'obiettivo opposto.