L'autografo con "dedica" sulla mia copia di "ZANARDI" |
Nel 1986 avevo venti anni, Andrea Pazienza trenta.
Quando ci trovammo l'uno di fronte all'altro, ad una mostra che esponeva suoi disegni in una galleria al Pantheon, a Roma, lui era un autore ed artista già affermato, ma costretto in quei panni nei quali probabilmente non si trovava più a suo agio da tempo, quasi sicuramente disgustato dall'obbligo di dover ormai produrre cose che piacevano più al pubblico pagante che a se stesso, mentre io ero un ragazzetto qualunque in attesa di partire per il servizio militare, abbigliato come voleva la moda "paninara" del tempo, più affascinato dal suo tratto spontaneo e perfetto anche quando abbozzato che dal significato sociopolitico intrinseco delle sue tavole.
Mi presentai, dopo una breve fila (era presto) con l'albo "Zanardi" aperto ad indicare la pagina sufficientemente bianca dove avrei voluto che rilasciasse il suo l'autografo.
Era seduto su una panca di legno verniciata di bianco come il muro dietro, non aveva un tavolo davanti a sé.
Con le gambe accavallate creava l'appoggio per scrivere o disegnare.
Quando fu il mio turno, alzò gli occhi (che aveva sempre mantenuto bassi), ma muovendo poco la testa: anziché vedere un paio di "polacchette" malandate (l'imitazione economica delle "Clarks Desert Boot") indossate dai ragazzi simpatizzanti di sinistra, vide un paio di scintillanti Timberland tirate a lucido.
Poi vide i Levi's 501, la polo Lacoste e infine i RayBan lenti a specchio con montatura nera a goccia.
Per acquistare il kit del perfetto "tozzo" (così si chiamavano i "paninari" a Roma) impiegai anni vendendo fazzoletti e "arbre magique" in periferia, insieme a ragazzi e ragazze molto più disperati di me
Mentre – probabilmente – il finto proletario che mi aveva preceduto nella fila degli autografi i soldi li chiedeva a mamma, anzi, era lei a darglieli per compensare i sensi di colpa tipici del genitore radical chic.
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«Che ci fa un "fascista" davanti a me?»
«Perchè mi chiede l'autografo?»
Deve aver pensato per un attimo, almeno così sembrò.
Poi, riabbassò lo sguardo e fece un rapido disegno con dedica, probabilmente pensando che non rappresentavo un pericolo come quello che aveva conosciuto bene in passato o forse per evitare che io lo diventassi in futuro.
La differenza tra noi, infatti, era principalmente che lui aveva già vissuto troppo e io ancora per nulla, esclusa la vendita porta-a-porta di alberelli profumati per automobili, ovviamente.
Morì due anni dopo, il 16 giugno del 1988, e ne rimasi scosso quasi quanto avessimo condiviso il tavolo da disegno (magari!) anziché averlo incontrato una volta soltanto.
Conservo i suoi lavori, ogni tanto li rileggo, non mi stancano mai, capisco un pezzo in più di quella generazione che, per poco, non è stata anche la mia: quella di metà anni '60, quella che aveva 15 anni agli inizi degli '80 e 25 agli inizi del '90, quella che per casuale auspicio prenatale scelse di nascere per rimpiangere il bel tempo andato dell'adolescenza e della maturità, anziché piangere morti, tra "compagni" e "camerati".
"Dopo il gelo degli anni di piombo, scaldiamoci al calduccio di questi anni di merda", scrisse didascalico ALTAN in proposito – un altro grande interprete del periodo contemporaneo – in una sua celeberrima vignetta, a proposito della transizione '70-'80.
Aveva ragione, ma fino a un certo punto, il piombo poteva tornare a scaldarsi velocemente, anche sotto mentite spoglie.
Chissà da che parte saremmo stati, se mai siamo stati da qualche parte.
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