Luigi Di Maio e Matteo Salvini, entrambi vicepremier di Conte |
Sono stato ad osservare per un po' in silenzio le reazioni all'operato di questo governo.
Per quanto non mi dispiacciano del tutto alcune posizioni salviniane, non posso non ricordarmi del suo passato secessionista.
Credo nel federalismo intelligente, non nell'extrema ratio che genera la frustrazione derivante dall'impossibilità di realizzarlo correttamente e in tempi brevi.
Ma veniamo al punto.
Qualsiasi partito aderisca a (e faccia parte di) un sistema democratico è – per definizione – democratico.
Pertanto, autodefinirsi democratici è pleonastico.
Tutti i partiti che accettano la struttura parlamentare bicamerale che si forma dopo regolari […] votazioni ed elezioni (non sono sinonimi, è bene ricordarlo) sono "democratici" e nessuno lo è più di altri, altrimenti viene meno il presupposto di base.
Ciò significa che il tentativo di ridefinire il sintagma – sia letterale, che di ordinamento politico vero e proprio – da un'iniziale struttura scissoria (esclusiva, appunto, partitica) porta al pleonasmo aggregativo (inclusivo, positivo nelle intenzioni, ma devastante nelle applicazioni).
Perché devastante?
Perché farlo con aggettivo – e non con sostantivo come faceva la Democrazia Cristiana, la quale delegava all'aggettivazione la parte "religiosa" di derivazione sturziana, vero zoccolo duro di quel partito – porta ad una confusione che non giova a quel comunitarismo al quale tutti i partiti della prima repubblica si appellavano per definire e rafforzare il proprio consenso.
Mani pulite distrusse quelle convinzioni poiché i "correntoni", alla lunga, indebolirono la struttura della linea portante "Sturzo-De Gasperi-Andreotti".
Le tangenti, quindi, erano soltanto un utile corollario che Di Pietro utilizzò, forse inconsapevolmente, più per abbattere Craxi che per creare un effetto domino probabilmente indesiderato.
Anche se il PCI non ne venne intaccato, il 1989 non poteva essere ignorato: una muta di pelle era comunque indispensabile.
Sarebbe filato tutto liscio come l'olio se Occhetto e Compagni non si fossero imbattuti in un personaggio che da Tangentopoli, anziché riceverne bastonate, paradossalmente ne ebbe benefici: Silvio Berlusconi.
Egli doveva fungere da capro espiatorio, ovvero doveva far sembrare i Rossi candidi e puri, più bianchi della neve (e della Balena).
Non andò così: gli ex PCI cambiarono pelle, sì, ma troppe volte, come una donna vanitosa prova più vestiti prima di decidere quale indossare per uscire con un uomo che le interessa.
Ne risultò qualcosa che, via via, strizzava l'occhio agli avversari storici, creando malumore nei duri e puri di entrambe le fazioni.
Se Berlusconi non ha più il carisma, l'età e l'energia di una volta per approfittarne di nuovo, altri – ben più giovani, ma spalleggiati da grandi vecchi – hanno approfittato di questo "buco comunitaristico" per riempirlo con il populismo un tanto al chilo.
In sostanza, il risultante PD è il vero artefice involontario della situazione politica attuale, dapprima con la creazione di personaggi come Renzi, un uomo per tutte le stagioni, ma per nessuna che soddisfi i desiderata popolari (e/o populisti) e poi con la conseguente generazione del suo opposto.
E D'Alema lo sa, come lo sapeva Bersani, ma nessuno lo ha ascoltato, innamorati come erano dell'uomo per tutte le stagioni che invece è durato poco, come scrissi profeticamente in tempi non sospetti.
Insomma, Salvini (e Di Maio in seconda battuta) ringraziano gli ex comunisti.
Inutile rincorrere, occorre proporre, ma seriamente, altrimenti lasciate perdere.
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