lunedì 25 febbraio 2019

I soldi non cambiano
le persone, le rivelano

Tra dono e razzismo



Non conoscerete mai a fondo una persona fin quando non avrete un rapporto con essa che riguardi uno scambio economico.

Fanno eccezione soltanto le genuine conoscenze di infanzia protratte nel tempo, invero rarissime, se si escludono le tristi e deludenti rimpatriate favorite dall’avvento dei social: gente che si reincontra trenta anni dopo senza avere nulla in comune e nulla da raccontare, se non elencare le frustrazioni di una vita che non è andata come si sognava oppure le balle per far finta che vada tutto bene.

Torniamo ai soldi.

In merito, le persone possono essere suddivise in tre macro categorie, gli avari, i moderati e gli spendaccioni.
Queste categorie di distribuiscono “spontaneamente” nel sistema e nel tessuto sociale: dove uno più spende, un altro più incassa.

Ma i soldi non servono soltanto a chi li deve spendere, servono soprattutto a chi ne ha tanti per mettere un guinzaglio corto a chi ne ha pochi.

E tra questi ultimi troppi ringraziano pure, più miserabili della miseria.

Non è raro forse sentire il dialogo:

"Quanto pago, Mario?"
“Commendatore! Non si preoccupi, per lei questo ed altro, tutto gratis, torni quando vuole”,
Quante volte abbiamo colto una flebile e servile speranza nel “favorino” dal “commenda”, che ti sistema la figlia, magari “bona” e in minigonna d'ordinanza?

Non c’è dono da chi non ha a chi ha già, il dono si configura soltanto quando uno che ha poco aiuta uno che ha niente.
Perciò l’entità e la natura del dono sono fondamentali e proporzionali all’avere (qualcosa) e all’essere (qualcuno).

In proposito ricordo un episodio accaduto molti anni fa.
Ero in un bar del centro di Roma, per un pranzo veloce.
Il locale era affollato, tutti in piedi, c’era anche qualche politico di passaggio (già mangiato gratis, come si dice), ma in cerca di qualche lecchino (non raro) che offrisse un caffè all’onorevole pavone.
All’improvviso urla femminili attirarono la mia attenzione: era entrato nella sala un “barbone” dall’odore nauseabondo.
Nonostante fosse freddo, non furono pochi i conati (veri? mah?), d’estate sarebbe stata una distesa di vomito.
Io ero avvantaggiato, d'accordo: non ho l’olfatto.
Sdegno plurale, il "barbone" venne cacciato in malo modo da un tirapiedi del titolare, più miserabile dell'espulso, ma in livrea e nell’esercizio delle funzioni per le quali era pagato (ecco il guinzaglio corto).
Pagai la mia consumazione e anche un tramezzino doppio (un “club sandwich”, mi disse la cassiera americana a Roma) da portar via.
Raggiunto il “barbone”, gli porsi il pasto.
La sua espressione sorridente in un viso sporco (ma pulito) e le sue mani sporche (ma pulite) sono state una delle più belle cose che io abbia mai visto.
E la cosa ancor più gradevole è stata che mi sono sentito molto meglio anche io.

Sono stato educato in una famiglia normale, di onesti lavoratori, come si diceva, ma anche un po’ bacchettona: i barboni di soito erano sfaccendati con poca o nulla voglia di fare qualcosa.
Maturando e creandomi una personale visione dei fatti, ho constatato che non è sempre vero, anzi, quasi mai lo è.

Raccontando l’aneddoto del “barbone” cerco forse applausi?
No, mi serviva un esempio soltanto per evidenziare un concetto: donare soldi a chi socialmente non può spenderli – poiché viene emarginato, malvestito e maleodorante – è una doppia violenza.

In tempi nei quali si parla di razzismo ad ogni pie’ sospinto, mi chiedo: non è forse “razzismo” anche il discriminare non per il colore della pelle, ma per l’odore del vestito?
A nessuno piace puzzare ed essere rifiutato dal “livello superiore”, ma l’ipocrisia buonista di chi rifiuta i “livelli inferiori” è un solido puntello della coscienza ingannata.
Aiutiamo anche gli italiani a casa loro, ma senza populismo elettorale.
Cioè: qui.

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